24. Sentivo il mondo cadermi addosso

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▶️ When the party's over - Billie Elish

Lasciamo semplicemente andare
Lascia che ti lasci andare.

Avevo un vuoto nel petto, una sensazione di smarrimento incisa sulla pelle ed una voglia di piangere che superava di gran lunga l'unico briciolo di lucidità che mi era rimasto addosso.

Non capivo il perché, e nemmeno il come, fossi arrivata a tanto.
Dopo che Denver mi aveva lasciata a casa mi ero chiusa in bagno, a immergermi in un bagno di acqua fredda.
Riusciva a calmarmi completamente, senza neanche dover esprimere i miei sentimenti. Mi calmava e basta, esattamente come a qualcuno che fumava, quel sapore acidognolo, dava una sensazione di sicurezza, di fortezza e quella sensazione di calma, che placava ogni emozione negativa.

Ero stata immersa nel freddo per più di mezz'ora, senza muovere neanche un arto. L'unica cosa che mi dava la certezza di essere ancora viva era il fatto che i miei denti sbattessero tra essi per il freddo, eppure non mi avevano dato la spinta per uscire da quel bagno di gelo.

Sia emotivo,, che fisico.

I ricordi li superavano, ignorando ogni sensazione, sentimento o pensiero.
Nella mia mente erano impressi i tempi di Diana, quelli dove Zia Margaret giocava con lei, quelli dove il padre la riempiva di botte, quelli dove lei stringeva Adelaide al petto, quelli dove lei stringeva i denti per non urlare dal dolore per il bruciore che, il contatto dell'alcol con le ferite gocciolanti di sangue, le causava.

Denver Mitchell era, per me, uno scrigno pieno di ricordi.
Non sapevo come facesse, ma riusciva sempre nascere in me ricordi che avrei preferito non avere, che avrei preferito non esistessero.
Ma nonostante tutto, ero pienamente presa da lui. Ogni millimetro della mia pelle urlava il suo nome, lo reclamava, lo voleva con sé.
Ogni parte di Adelaide Parker, di Diana López, acclamava una sua carezza, un suo sguardo, una sua attenzione.

Ero sicura che lui, dalla prima volta che i nostri occhi fossero entrati in collisione, avesse capito che qualcosa, in me, non andasse.
Non sapevo se fosse munito di qualche superpotere, se avesse qualche strano aggeggio piantato nella testa che gli permetteva di leggere ogni pensiero delle persone che aveva di fronte, o se semplicemente i miei occhi parlassero soli, ma dove nessuno era riuscito a leggerli.

Quello stesso pomeriggio ero uscita con Karen e mi ero rifugiata da Starbucks, ma neanche una buona cheesecake e due biscotti al cioccolato, accompagnati da un buon Café Mocha, erano riusciti a tranquillizzarmi.
Il bruciore al bacino del tatuaggio appena fatto, poi, non aiutava per niente.
Dovevo applicare delle strane creme sopra esso due volte al giorno, che per alcuni secondi mi davano una sensazione di freschezza meravigliosa che, però, non durava a lungo.
Quella sensazione di bruciore ritornava ancora, forse anche più forte, ma in certi momenti di trance e confusione, non riuscivo nemmeno a capire le sensazioni che il mio corpo avesse, se fossero piacere o fastidio.

"Quindi?" Mi aveva chiesto Karen, osservandomi attentamente.
Portava i suoi capelli dorati in una crocchia disordinata, aveva una felpa bordeaux che la riparava dal freddo e un jeans nero che fasciava alla perfezione le sue gambe magre.

Le temperature a New York, nel giro di poche ore, si erano abbassate molto, arrivando a toccare quasi i 3°C, ed era in momenti come questi che rimpiangevo il Messico, con le sue temperature -quasi- sempre calde.

"Quindi cosa?" Avevo chiesto confusa, sistemando meglio il giubbotto pesante sulle mie spalle, anche se la maglietta leggera bianca e i leggings neri non aiutavano il mio tentativo di riscaldarmi.

"Quindi cosa, cosa?" Aveva ribadito Karen, con una smorfia disegnata sul viso.

"Idiota." Avevo borbottato, mentre alzavo gli occhi al cielo. "Secondo te sono strabica?" Avevo poi chiesto, facendo caso a tutte le volte che alzavo gli occhi al cielo.

MANTIENI IL SILENZIO - Non avere pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora