48. La fine è sempre più vicina

367 26 59
                                    

Era strano.
Le orecchie erano tappate, le gambe indolenzite e tutto sembrava così precario. Ogni tanto qualcosa, come una scossa di terremoto, faceva traballare tutto.
Sbadigliai per stappare le orecchie di sbuffai: ora fischiavano. E il piccolo umano a destra continuava a piangere.
Mi voltai a sinistra, ma era tutto scuro. Qualcuno russava e non comprendevo come potesse dormire: era tutto troppo scomodo.
Provai a muovere una gamba e feci una smorfia per la fitta di dolore. Ero rimasto immobile nella stessa posizione per troppo tempo. Anche la schiena e il sedere chiedevano pietà per quel sedile duro e le ferite riportate dal combattimento con i vampiri in nero non erano ancora guarite del tutto.
Eravamo sparpagliati fra tutti gli umani, in posti piccoli e scomodi perché non c'era stato tempo di trovare mezzi migliori. Alcuni senza-pelo dormivano, altri leggevano e altri ancora parlavano. Sentivo l'ansia di qualcuno di loro e li vedevo lì, tesi ed immobili, che sobbalzavano ad ogni tremore.
Anche i vampiri apparivano preoccupati, ma sapevo che non era colpa della scatola cilindrica volante e traballante.
La bambina era tornata a Forks insieme ai due licantropi, alla vampira bionda e alla moglie di Carlisle. Il vampiro che controllava le emozioni voleva che anche la sua compagna andasse, ma lei si era opposta: doveva aiutare noi con le sue premonizioni. E poteva essere anche un valido oggetto di scambio, avevo pensato. Sapevo che ai vampiri in nero interessavano alcuni membri della famigli Cullen, Chiara compresa.
Lasciai vagare lo sguardo per l'aereo e incrociai quello di Andrea. Se mi avesse potuto uccidere, lo avrebbe fatto volentieri. Mi attribuiva la colpa di ogni singola cosa, ma non era affare mio se Chiara aveva ricambiato il mio bacio e lui ci aveva visti.
Anzi, se lui non fosse venuto a cercarla, Chiara non sarebbe tornata da lui e i Volturi non l'avrebbero presa. Era solo colpa sua, decisamente.
Aveva provato ad aggredirmi altre tre volte prima che ci imbarcassimo, ma tutte le volte era stato fermato e la cosa mi dispiaceva. Finalmente, avrei potuto confrontarmi con lui ad armi pari; finché era umano non c'era gusto nel picchiarlo.
Continuai a fissarlo e lui fece lo stesso. Sorrisi divertito, facendogli un occhiolino, prima di tornare a guardare le tenebre fuori dal finestrino. Trattenni il respiro: in lontananza stava spuntando una luce rossa.
È il sole. Pensai stupito, sorridendo.
Non avevo mai visto una cosa del genere.
Abbastanza presto, la luce si fece più intensa e squarciò il nero della notte, andando a colpire il metallo grigio. Qualcuno sbuffò e chiuse la tenda, ma non capivo come potesse farlo, fuori c'era uno spettacolo troppo bello.
Poi una voce gracchiante all'altoparlante mi richiamò all'attenti: «Stiamo per atterrare. I signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza».
Feci come avevano detto, anche se non capivo come un pezzo di corda dal tessuto strano potesse salvarmi dalla caduta dell'aereo. Osservai le hostess passare nel corridoio, per controllare che tutti avessero messo la cintura, poi chiusi gli occhi.
La fine era sempre più vicina.

Riaprii gli occhi e li richiusi, per poi riaprirli

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Riaprii gli occhi e li richiusi, per poi riaprirli. Era buio esattamente come prima.
Chiusi nuovamente gli occhi e presi un bel respiro. Trattenni l'aria nei polmoni finché non iniziò a fare male e poi la rilasciai con un sospiro.
Puzzava. Puzzava di umido. E questo mi faceva capire che no, non era tutto buio per colpa della nebbia malefica di Alec.
Provai a guardarmi intorno, ma non riconoscevo assolutamente nulla. Forse, non c'era niente intorno a me.
Sentivo però dell'arietta fresca. Da qualche parte, doveva esserci un buco che portava all'esterno.
Mi sedetti e mugolai. La schiena e la testa facevano malissimo.
Sentivo di essere seduta su di una superficie fredda. Tastai intorno a me, toccando le lisce deformità di quelle che sembravano essere pietre.
Un pavimento... pensai.
Poi, alla mia destra, sentii una superficie perpendicolare all'altra, con la stessa conformazione, ma con pietre più grandi e ruvide.
Una parete. Mi dissi e mi aggrappai ad una piccola sporgenza, tirandomi su a fatica.
Le gambe cedettero e caddi in ginocchio. Strinsi i denti, sentendo le ginocchia bruciare e i pantaloni strapparsi.
Cercai di alzarmi nuovamente, ma non trovavo le forze. Caddi su un fianco, stringendomi in posizione fetale, e mi addormentai nuovamente.

It's my lifeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora