Capitolo XI: Remore

21 4 0
                                    

A differenza di molti ristoranti di lusso simili, il Golden Palace non era il genere di locale affollato all'ora di pranzo, anzi, intorno a mezzogiorno erano pochi i tavoli apparecchiati, principalmente per due o per famiglie di quattro. Situato nella zona opposta del villaggio rispetto al cimitero, il ristorante era composto da un'unica enorme sala, aperta su una veranda affacciata sulla valle sottostante, sotto un unico soffitto a volta, coperto da una griglia di legno coperta da rampicanti ai quali erano legate delle semplici lampadine che illuminavano il tutto di notte. I tavoli rotondi erano sistemati a scacchiera, circondati da sedie di legno rustiche e, lungo le pareti, da lunghi divanetti di morbido velluto rosso.

Phoenix e io non facemmo in tempo ad entrare che un giovane cameriere, in uniforme nera elegante, ci si presentò davanti. «Signori,» disse, «avete prenotato?»

Phoenix stava per rispondere, quando un secondo cameriere, un uomo sulla trentina dai tratti caratteristicamente irlandesi, con una divisa simile ma bianca, uscì dalla cucina, intenzionato a parlare con l'addetto al ricevimento, ma non riuscì nel suo intento, sorpreso dal nostro arrivo. «Matthew? Sei veramente tu?»

«Sorpresa,» fu la risposta del detective, con un briciolo di allegria nella voce, «sono passato a vedere come te la cavavi.»

«Signore,» lo richiamai io alla realtà, «dobbiamo sbrigarci, i Kelley ci aspettano per le 13, e...»

«Cameron, sei sempre così... ansiogeno?» Batté una pacca sulla spalla del capo cameriere, seguendolo poi tra alcuni tavoli, occupati e non, fino a uno rotondo, poco distante. Prese con calma una sedia, sedendosi ancora più calmo con le gambe incrociate sulla sedia, a "farfalla", come dicono nello yoga. Mi chiesi ancora se si trattasse di uno scherzo, ma quando il cameriere di prima tornò con due menù contornati da una cornice nera lucente, capii che l'unica cosa su cui si poteva scherzare in quel momento era la reazione di Jenkins qualora l'avesse scoperto.

«Avete già un'idea di cosa ordinare?», chiese l'uomo, digitando il numero del tavolo sullo smartphone aziendale.

«Logan, sai già che prenderò il solito, quindi non lamentarti... Piuttosto,» aggiunse, abbassando il tono, «come sta tua madre?»

«Meglio, grazie,» rispose l'uomo, con aria comprensiva, «mi chiede spesso di te, ma... Sai, la malattia non le lascia molte libertà... Per il resto però va abbastanza bene... Oh, scusi,» disse poi, come ad accorgersi che Phoenix non era solo, «lei cosa prende?»

Non avevo nemmeno avuto il tempo di aprire il menù, e comunque non volevo spendere un mese intero di stipendio per un'insalata mista, quindi risposi: «Ah, per me lo stesso, grazie.» Riconsegnai al cameriere la lista delle specialità del giorno, devo dire abbastanza irritato, perché al compleanno mio e di mio fratello, l'estate scorsa, avevo mangiato un salmone paradisiaco, e in quel momento non avevo la più pallida idea di cosa stavo per mangiare. «Mi scusi,» dissi quindi, sperando in una minima spiegazione, «ma...»

«Se te lo stai chiedendo,» rispose Matthew Phoenix, «la lettera della Marshall non è stata il motivo per cui sono venuto a Chatletsdale... O meglio, ho preso quella richiesta come un pretesto, per poter lasciare la polizia cittadina e... fare una visita in paese.»

«Intende dire che è già stato qui?», chiesi.

«Io no... Ma una persona lo era...»

«Un amico?»

«No,» disse, con voce triste, «lei era qualcosa di più...»

«Ah,» dissi io, «mi scusi, non volevo farle rivivere...»

«No,» mi interruppe Phoenix, «è giusto che tu sapessi la verità... Intendo, quella vera... E poi...» Si interruppe improvvisamente, dato l'arrivo di un cameriere con dei piatti di ceramica nera, fumanti. «Oh, che bello, sono mesi che aspetto di mangiarne uno...»

Spiriti della PrimaveraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora