Capitolo XII: Cenere

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Arrivammo a casa dei Kelley proprio mentre il sole si nascondeva dietro un banco di soffici nuvole, rendendo la fresca giornata primaverile simile a un freddo giorno invernale. Lasciammo i mezzi davanti alle case a schiera in mattoni rossi, caratterizzati da torrette che si sporgevano verso l'esterno. Il secondo piano era interamente circondato da balconi, mentre sul retro era stato allestito un giardinetto, ombreggiato da un'enorme quercia perfettamente sagomata. Mi fermai davanti ai citofoni, contando i numeri, e schiacciai il pulsante del 27/B. Pochi istanti dopo una voce meccanica risuonò nella cassa. «Sì?»

«Detective Matthew Phoenix,» disse il mio collega, «siamo qui per parlarle, signora Kelley.»

La serratura magnetica del cancello scattò, e noi potemmo entrare, seguendo un sentieri di pietre bianche fino alla porta in vetro opaco nella veranda aperte sul fronte dell'edificio. La donna ci raggiunse, aprendo l'uscio. «Buongiorno, signori, prego,» disse, indicandoci il salotto, «mio marito vi aspetta.»

A differenza dell'esterno caratteristico del moderno paesino di campagna, le stanze interne erano decisamente più semplici: le pareti dai colori tenui, biancastri, erano a malapena coperte da qualche mobile antico o quadro, a eccezione dell'enorme camino che occupava buona parte del salotto in cui si trovava Max Kelley, comodamente seduto su una poltrona foderata in lana verde smeraldo. Non appena ci trovammo sulla soglia, l'uomo appoggiò il giornale che stava leggendo sul tavolino lì a fianco, appoggiando vicino gli occhiali da vista. «Signori,» disse Kelley, facendo tornare lo schienale reclinabile in posizione da seduta, «pensavo non sareste più arrivati... Prego, accomodatevi.»

Mi sedetti sul divano nero di fronte, ancora appesantito dal pranzo di prima. Phoenix invece si appoggiò al bordo del camino, osservando i rimasugli di cenere ammassati al centro del focolare. «Possiamo cominciare,» disse Phoenix, «signor Kelley, le chiederei di confermare i suoi movimenti ieri sera: lei si è recato con sua moglie alla cena a casa Foster, ed è rimasto nella sala da pranzo per l'intera durata del pasto, corretto?»

«Esatto,» rispose Kelley, «sono sempre rimasto con mia moglie, almeno finché... Oh, quella ritardata! Perché per una buona volta non se ne stava zitta?»

«Se parla così della defunta signora Marshall,» ribatté Phoenix, «ne deduco che la conoscesse anche bene.»

«Fin troppo,» continuò Max Kelley, «eravamo vecchi conoscenti, dai tempi della scuola... Conoscenti, per carità, niente di più... O meglio, lei la pensava diversamente... Abbiamo avuto una storia, una volta, ma nulla di serio, se è questo che vi interessa.»

«Una storia? Grazie per avercelo detto subito, così evitiamo di scoprire dettagli importanti in ritardo... Le chiedo però ora di concentrarci su ieri sera, per non deconcentrarci dal punto chiave: l'omicidio. Lei ha lasciato la sala verso le 22.24, nel bel mezzo della partita di poker, ma quello che mi interessa non è il fatto che è rimasto nello studio per ben nove minuti - tempo più che sufficiente per escogitarsi qualcosa - ma che, una volta uscito, ha del tutto lasciato l'abitazione. Era arrabbiato?»

«Arrabbiato?», ripeté l'uomo. «Può scommetterci! Quella cretina voleva chiedermi di sposarla!»

«Scusi?», chiese Phoenix. «Sposarla? E lei aveva intenzione di lasciare sua moglie?»

«Non so cosa avesse in mente, ma non stava bene, no di sicuro! Era convinta che la amassi ancora... Ma sono passati trent'anni, tra di noi non c'era più nulla.»

«E sua moglie lo sa?»

«Sì, cioè, no... Le ho detto che voleva provarci con me, ma non mi sarei mai sognata di fare una cosa del genere!»

Phoenix portò per l'ennesima volta il braccio nella tasca della giacca, aprendo poi l'immancabile taccuino e annotandoci sopra qualcosa. «Quindi lei è andato nello studio per parlare di questo? O è avvenuto dopo?»

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