Capitolo XXI: Dubbio

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Scesi di corsa le scale, tenendo un palmo sul corrimano, mentre con l'altro facevo scorrere l'elenco dei contatti del cellulare. Larry, Lola, Luan... Lucky Luke, eccolo. Mi lasciai sfuggire una risatina, ricordando il mitico personaggio dei fumetti francesi a cui mio fratello si era appassionato anni prima. Quel periodo magico in cui si comincia a prendere consapevolezza del mondo in assenza degli ormoni adolescenziali rovinino la vita. In cui si è privi degli odiosi pregiudizi del mondo dei teenager, liberi di poter essere o diventare chi si vuole essere o diventare senza sentirsi costretti da una gabbia invisibile imposta dalla società. Era fissato con i fumetti, di qualsiasi genere fossero: dai supereroi americani ai personaggi surreali dei manga, ma tra tutti, la serie francese sul pistolero più veloce del west lo aveva sempre affascinato, e il fatto di avere lo stesso nome non era l'unico motivo. Da qui il nome usato per salvarlo in rubrica: Lucky Luke.

Il telefono cominciò a squillare, continuò per diversi secondi, prima che mio fratello si decidesse a rispondere. «Cam, che c'è?»

«Nulla di grave,» risposi, «ma credo di dover restare al lavoro fino a tardi... Abbiamo una sospettata in coma, e una marea di sospetti...»

«Mh... Capito,» disse lui. Di sottofondo si sentiva l'inconfondibile e fastidiosa melodia metallica sigla di Criminal Minds, mentre dal continuo deglutire di Luke non potevo che immaginarmi una ciotola colma di popcorn caldo, probabilmente quello al caramello, il suo preferito. «A dopo.»

«Ciao,» conclusi riagganciando la chiamata. Mi chiusi la porta delle scale alle spalle, poi mi diressi verso l'ufficio. Phoenix si trovava dietro la scrivania di Jenkins, di fronte a lui c'era un uomo, seduto di spalle. Aveva i lineamenti del viso incredibilmente squadrati, tipici degli abitanti dei paesi dell'Europa centrale, così come la barba  incolta e i capelli rossiccio. L'unica cosa che tradiva la sua provenienza era la tinta marroncina della sua pelle, chiaramente non occidentale, ma nemmeno lontanamente simile ad Amy o sua madre. Dalla sua espressione non traspariva alcuna emozione, a eccezione della sua freddezza, accentuata dall'inclinazione delle folte sopracciglia, sempre piegate verso il basso. Aveva un piercing nero al naso, mentre un secondo anellino metallico penzolava dalla parte superiore dell'orecchio sinistro, e insieme lo facevano sembrare più adulto di quanto non fosse in realtà. Era decisamente più robusto di me, più alto di qualche centimetro, al punto che "Un giocatore di rugby" fu il mio primo pensiero. I suoi abiti di seconda mano emanavano una forte odore di polline, vero e proprio veleno per gli allergici. «Buongiorno, sergente Cameron Stunningham.»

«Frans... Frans Benatar,» disse il ragazzo. Aveva una voce rauca da fumatore, con un marcato accento olandese. L'olandese medio, per farla breve.

«Bene, signor Benatar,» disse Phoenix, indicandomi chiaramente la mia scrivania. Notai in quel momento il telo bianco lasciato cadere sulla lavagna, per nasconderla agli occhi delle persone esterne alla polizia. Solo quando mi fui lasciato cadere sulla sedia da ufficio, Phoenix riprese: «Come ha saputo dal nostro agente, è stato trovato il corpo della sua datrice di lavoro, Margaret Bates.»

«E allora che ci faccio qui?», lo interruppe Frans Benatar con tono malizioso. Non dimostrò alcuna traccia di tristezza per la morte della donna che gli aveva dato un lavoro, che gli aveva offerto un'opportunità. La considerava come un computer dell'ufficio collocamento. «Credete che l'abbia ammazzata io?»

«Non abbiamo ancora informazioni sufficienti per rispondere a questa domanda, ma no, per il momento lei non è tra i sospettati.» Aprì uno dei cassetti della scrivania e ne estrasse una busta di plastica trasparente. «Tuttavia, se fosse così gentile da aiutarci potremmo trovare più facilmente il colpevole, e lei tornerebbe prima al lavoro...»

«Come se fosse una cosa positiva... Sa quanto si guadagna a vendere fiori, eh?» Si appoggiò sprezzante al piano di legno del tavolo con i gomiti, studiando a fondo l'espressione impressa nelle retine del detective. «Dove l'hanno ammazzata?», chiese infine.

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