Capitolo XXVI: Incubo

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Davanti al Chatletsdale General Hospital non si trova mai posto, posso dirlo per esperienza, dopo tutte le volte che ero andato a fare donazioni di sangue o per i regolari controlli medici richiesti dalla professione. L'ultima volta ero arrivato con un quarto d'ora di ritardo all'appuntamento, e solo tre di quei quindici minuti erano dovuti al mio mancato orologio biologico. Ma il problema non era il numero dei mezzi presenti, quanto più lo spazio limitato in cui parcheggiare: una cinquantina di posti da dividere tra personale e pazienti, tenendo conto di una dozzina di spazi riservati ai disabili. E ovviamente bisognava lasciare libero il passaggio per le ambulanze. In pratica, trovare un posto era facile quanto passare un Natale intero con mia madre: impossibile.

Quel giorno non fu diverso dagli altri: dei quarantotto posti disposti su quattro file parallele, solamente due erano liberi, uno dei quali era troppo stretto per l'auto di Phoenix, mentre l'altro era il più lontano dall'ingresso principale. Poco male, almeno non eravamo stati costretti a cercare qualche bar isolato nel bel mezzo del nulla.

L'ospedale di Chatletsdale risaliva alla metà del secolo precedente, a quel periodo in cui mattoni rossi e legno erano di moda. Sorto dalle ceneri di una vecchia fabbrica abbandonata, si trovava al limite nord del paese, isolato dal resto del vicinato da una curva dietro alla collina.

Era formato da due edifici, uno dedicato alle stanze per i ricoveri, l'altro contenente pronto soccorso, uffici e due sale operatorie. Non molto, certo, ma in un paese di poche migliaia di abitanti è sempre bastato. Superammo il portico in vetro e ci ritrovammo al bancone d'accettazione. Distintivo identificativo: più utile di un passpartout. Fummo accompagnati da un infermiere lungo il corridoio su cui si aprivano gli studi dei medici di base e le sale d'aspetto, e ci fece uscire dal primo edificio attraverso un tunnel sopraelevato in vetro. Dall'altra parte c'era un silenzio di tomba, non un fiato, non un respiro. Cercammo il banco informazioni, ma non c'era nessuno ad aspettarci. Era pur sempre una tarda mattina di un lunedì soleggiato, chi starebbe di propria volontà in una stanza con ventilazione forzata e luci bianche?

«Mi ha chiamato Lynch dall'accettazione, cercate Ada Chamberlain?» Una voce famigliare.

Mi voltai lentamente, trovandomi di fronte praticamente lo stesso volto della sera precedente.

Loreley: la donna che canta all'uomo morente. Nome azzeccato, zia Terri.

Loreley Hicks aveva gli stessi rapporti facciali della sorella Summer, gli stessi capelli scuri lisciati, in questo caso tagliati a caschetto all'altezza del mento, la stessa corporatura, lo stesso modo di comportarsi. L'unica differenza era l'onnipresente senso del dovere, di aiutare gli altri, quello che l'aveva portata a studiare medicina e diventare infermiera. La versione simpatica della sorella minore. Perché, nonostante i due anni di differenza da Summer, erano due gocce d'acqua. «Cam.»

«Lory,» risposi senza troppo entusiasmo. Non che non mi piacesse, delle tre sorelle Hicks era quella con cui avevamo avuto più contatti, ma dopo la litigata con Summer la sera precedente, non avevo molta voglia di parlare con un'altra Hicks.

«Loreley Hicks, assisto Ada Chamberlain,» si affrettò a spiegare a Phoenix. «E sono anche sua cugina.»

«Siete davvero tutti parenti, in questo paese?», commentò non molto delicatamente Nate.

«Dannatamente vero,» commentai a bassa voce, tornando poi a rivolgermi a Loreley. «Quindi, avremmo bisogno di parlare con Ada il prima possibile.»

«Certo,» annuì lei, facendo una giravolta sul tallone destro e dirigendosi verso un corridoio laterale.

La seguimmo oltre una decina di porte bianche chiuse, senza alcuna luce proveniente dall'interno. Accadeva spesso che interi reparti rimanessero vuoti, e la cosa non poteva che risultare rassicurante.

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