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I ragazzi, una volta arrivati, vennero accolti immediatamente dal calore della madre di Jimin.

Era una donna composta nei modi, gioviale e molto gentile. Sempre sorridente.

Quando aprì la porta, i primi che si ritrovò davanti furono Taehyung e Jin, i quali, senza minima esitazione, si fiondarono ad abbracciarla.

La donna ridacchiò, stringendoli a sè ancora più forte. 《Aaaa i miei ragazzi! Da quanto!》 Esclamò tra le risate.

Subito dopo l'abbracciarano anche gli altri ragazzi.

Gli ultimi furono Jeongguk e Jimin.

Jeongguk venne accolto da uno sguardo complice, un po' emozionato  e da un particolare sentimento, che, però, non riuscì a decifrare. Pareva una specie di comprensione.

Jeongguk la strinse a sè, cercando, in silenzio, un po' di quel calore che gli poteva ricordare Jimin. L'odore dell'ammorbidente che proveniva dai suoi vestiti era lo stesso.

Si lasciò coccolare per un po', in maniera più peculiare rispetto all'affetto che la donna aveva dato agli altri amici.

Era un abbraccio quasi malinconico.

La madre di Jimin, dopo un po', si staccò e gli mise le mani attorno al suo volto, guardandolo con un sorriso rammaricato. 《Guk-ah.》 Poi lisciò i suoi capelli e lo guardò con occhi lucidi.

Jeongguk non sapeva nulla, ma nonostante questo, quel supporto che stava ricevendo, che stava coccollando tutti i suoi sensi di colpa nei confronti di Jimin e tutto quello che stava passando, sembrava più che giusto.

Il corvino rilasciò un sospiro, non volendo cadere lì, proprio difronte a tutti, che lo guardavano con tenerezza.

Solo Jimin teneva la testa bassa, affaccendato in altro, quasi non interessato al rivedere sua madre.

Non per cattiveria, ma per semplice paura.

Jeongguk, dopo essersi ripreso si staccò completamente e andò verso gli altri, che, nel frattempo, cercarono di fare finta di niente.

《Jimin-ah! Non vieni a dare un abbraccio a tua madre?》 La donna trattenne su di sè il sorriso più grande, anche se, il rivedere suo figlio totalmente ammaccato dal cancro era tutt'un altro tipo dolore.

Jimin, indebolito, magrolino, pallido e con il volto sfigurato dalla tristezza, si avvicinò silenziosamente alla madre e allacciò le braccia alla sua schiena.

I ragazzi, nel frattempo, notarono come lei non fece troppi commenti sull'aspetto palesemente cambiato del figlio, ma non in maniera da sembrarne ignara o non curante, ma in maniera addirittura cosciente e consapevole.

Quell'abbraccio fu il coltello che penetrò nel cuore, nel petto, nell'anima di quella donna.

Era debole. E non debole solamente per il cancro. Ma debole, soprattutto, per la sofferenza mentale a cui era sottoposto ogni fottuto giorno.

Non aveva mai visto suo figlio così perso.

Quando lo spostò dalle sue braccia per lasciargli un bacio in fronte, si fermò qualche secondo a guardarlo negli occhi. A vedere se c'era ancora quel luccichio di speranza dalla volta in cui gli era stato diagnosticata la malattia.

Era una leucemia mieloide cronica in fase di sviluppo. Jimin aveva diciotto anni e con un piccolo sorriso e un po' di paura, aveva accettato la sua condizione, senza farla pesare a nessuno.

In quanto cronica e, quindi, di lento peggioramento, quando gli era stato trovato, grazie a delle banali analisi del sangue, la malattia era ai primissimi stadi ed i dottori, come Jimin, erano particolarmente certi che l'avrebbe sconfitta.

I trattamenti, infatti, di solito, rispondono efficacemente in questo stadio di evoluzione.

In questi primi anni, Jimin, era stato trattato solamente con dei farmaci appositi, in quanto la chemio sarebbe stata troppo aggressiva.  La leucemia era come se non ci fosse. "Un banale raffreddore perenne". "Innocua" e sicuramente trattabile.

Ma più il tempo andava avanti, più i farmaci non sembravano funzionare definitivamente.

E così, Jimin, un anno fa, si ritrovò a progredire nella fase "accellerata", dove la leucemia diventò più aggressiva; arrivando poi, fino ad ora, ad avere necessariamente bisogno del supporto della chemio.  Se non addirittura l'aiuto di un trapianto di cellule staminali.

Ma erano passati cinque anni e gli occhi di Jimin li dimostravano.

Per quanto potesse cercare di andare avanti e combattere, l'abitudine a quel marcio interno lo stava pian piano demolendo. E, ormai, non sapeva nemmeno più in cosa sperare.

Quello che, soprattutto, lo teneva in vita e saldo all'aspettativa di riuscita, era solamente l'amore che provava per i suoi cari e l'affetto che, nonostante tutto, riceveva indietro.

In altre condizioni, probabilmente, la cosa sarebbe andata diversamente. Amore verso se stesso non ne aveva mai avuto.










— vi avviso che ci saranno capitoli (non a breve, ma ci saranno) in cui lo stato mentale di Jimin verrà trattato in termini piuttosto forti.

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