Capitolo trentatré

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Cosa combinarono Antonio e Lovino in questo lasso di tempo? Ora ve lo racconto.
Antonio aveva seguito il ragazzo fino a un magazzino, in silenzio. Avrebbe voluto tenergli la mano, ma meglio non rischiare, in teoria lui era João e João non avrebbe preso per mano Lovino (fortunatamente).
Una volta nei paraggi, Lovino imprecò e si nascose dietro un altro edificio.
-ci sono dei soldati- gli disse, a bassa voce -fuori, a fare la guardia.
-dobbiamo entrare lì dentro?- Lovino annuì, mordendosi il labbro -okay. Ci penso io- gli stampò un bacio sulle labbra, giusto in caso fosse andato male qualcosa. Poi, prima che quello potesse dirgli qualcosa per fermarlo, uscì allo scoperto e si diresse verso i soldati con aria furiosa.
-che ci fate qui? Eh?- li raggiunse e li incenerì con lo sguardo -non avete sentito l'ordine?
Quelli si guardarono confusi. Uno fece il saluto militare, forse pensando potesse risolvere qualcosa o forse per semplice abitudine.
-ehm, signore...- iniziò un altro.
-non avete le radio accese?
Uno controllò la propria radio -sì, ma...
-e allora che ci fate qui? Non avete sentito il messaggio?
-no signore, non ci è...
-be', chissene frega- li interruppe -vi stanno aspettando, andate subito.
-chi, signore?
-dove?- chiese un altro.
Li incenerì con lo sguardo -come chi? Dove? Mi state seriamente chiedendo dove?
-n-no signore- lo rassicurò uno. Guardò gli altri due, chiaramente nel panico -andiamo.
-bravi- quando quelli ebbero fatto qualche metro li richiamò e indicò con un cenno del capo il magazzino -ci sono altri lì dentro?
-no signore, eravamo solo noi.
-perfetto. Ora smammate, sciò.
Quelli corsero via. Antonio sospirò di sollievo e si passò una mano tra i capelli, per abitudine, ma a metà strada scontrò l'elastico. Sbuffò, aveva appena distrutto la coda. Che cretino. La sciolse, tanto ormai...
Lovino lo raggiunse, con un piccolo sorriso, e gli prese la mano. Antonio si sentì subito più tranquillo.
-allora entriamo, signore- commentò, sarcastico.
Quando furono dentro ed ebbero sprangato la porta, controllato che effettivamente non ci fosse nessuno e coperto le telecamere ("non che serva, poi ti spiego perché, ma meglio non rischiare"), Lovino lo attirò a sé, con le braccia intorno al suo collo, e roteò gli occhi -vuoi baciarmi decentemente sì o no?
Antonio sorrise, stringendolo tra le braccia -non vedo l'ora- e, finalmente, finalmente, finalmente, lo baciò per bene, assaporando ogni istante, e per la prima volta dopo fin troppo tempo si sentì respirare. Appoggiò la fronte contro la sua, con un sorriso enorme, vero, spontaneo, completo.
-ti amo- lo baciò sulla guancia, poi dietro all'orecchio e infine si dedicò al suo collo, tirandoselo più contro. Che voglia che aveva di baciarlo... Lovino ridacchiò e si premette contro di lui, nascondendo il viso contro la sua spalla. Sospirò, lasciandosi avvolgere dal suo profumo, un po' alterato dalla puzza di sangue e di sudore.
-anch'io- disse solo, sincero, e la pura e semplice verità suonò strana contro la lingua. Gli ci vollero un paio di minuti a ritrovare la forza di fare quel che andava fatto, ma si scostò dal suo abbraccio, chinando la testa -abbiamo del lavoro da fare.
-va bene- lo baciò sulla fronte, e all'italiano ci volle uno sforzo cosciente per non scoppiare a piangere e per non tornare tra le sue braccia come un pulcino tremante -che dobbiamo fare?
Noi. Che bello sentirlo parlare usando il noi
-dobbiamo liberare la stanza. Gli altri sbucheranno da dei tunnel qui sotto, tra circa un'ora, ma dobbiamo sgomberare lo spazio intorno.
-va bene- gli prese la mano. Lovino si concesse un sorriso -io mi occupo degli scaffali più pesanti e tu degli scatoloni?
-va bene- lo baciò per qualche secondo, lasciandosi rassicurare dal suo sguardo gentile, dalle sue labbra morbide, dal suo respiro caldo. Poi gli lasciò la mano -sbrighiamoci, abbiamo solo un'ora.

Orientarsi lì sotto fu un casino, principalmente perché non si vedeva un cazzo. In testa c'era Arthur, i cunicoli erano così stretti che dovevano stare in fila indiana, il quale guidava seguendo la mappa che vedeva perfettamente nella sua testa, e con una mano sulla parete cercava le curve e le svolte. Dietro di lui c'era João, che continuava a lanciare occhiate al soffitto, se per paura che crollasse o per qualche motivo particolare lo sapeva solo lui. Dietro ancora c'era Feliciano, il quale stava cercando in tutti i modi di continuare a sorridere nonostante quei cunicoli bui gli facessero una paura fottuta, e teneva per mano Ludwig, che in caso di ostacoli o zone pericolanti li avvertiva, e a ogni curva lasciava dei solchi sulla pietra con le dita, in modo che, se si fossero ritrovati a girare in tondo, Arthur li avrebbe percepiti contro la mano.
-ma non potevi portarti una torcia?- brontolò Arthur a un certo punto. João scrollò le spalle.
-all'ingresso della cella c'era un metal detector. Mi avrebbero beccato subito.
-che due palle però- dopo qualche altro passo si fermò e si girò verso il generale -dovremmo esserci.
João si girò verso Ludwig -senti qualcosa sopra di noi?
Il tedesco osservò il soffitto per qualche secondo. Poi annuì -c'è un vecchio tunnel che porta in superficie. C'è un blocco, ma dovrei riuscire a toglierlo.
-e dopo cosa c'è?
Quello scrutò verso l'alto per qualche altro secondo, poi scosse la testa -non ne sono sicuro. C'è un edificio in cemento, ma di più non riesco a dirlo.
Joāo scrollò le spalle -va bene. Allora per salire...
-mi ci vorrà qualche minuto- lasciò andare la mano di Feliciano e si allontanò da lui, raggiungendo a fatica la testa della fila (ma per quale cazzo di motivo quei tunnel erano così stretti?!) e mettendosi al lavoro.
E così il piccolo italiano rimase da solo, al buio. Prese a tormentarsi il bordo della giacca, nervoso. Quanto odiava l'oscurità... trattenne a stento una bestemmia.
Forse potrei tirarvi fuori un qualche discorso filosofico e psicologico su quanto la sua paura del buio fosse, in realtà, un'inconscia paura dell'ignoto, di ciò che non conosceva, ma direi delle stronzate. Feliciano non aveva paura dell'ignoto, aveva paura del noto, di perderlo o di ritrovarlo, e soprattutto aveva paura dei mostri. No, non parlo di demogorgoni, dei folletti cattivi delle fiabe, o del classico mostro sotto il letto o dentro l'armadio. I mostri erano quelli che gli avevano portato via suo fratello, quelli che avevano ucciso i genitori di Ludwig e Gilbert e la famiglia di Arthur; i mostri erano i padri di Antonio e di João e di Eliza, quelli che avevano preferito cacciare i figli, persino tentare di togliere loro la vita che loro stessi avevano dato, piuttosto che accettarli per quelli che erano; i mostri erano i corrotti, i mafiosi, gli assassini, gli sfruttatori; i mostri erano gli umani, e Feliciano ne aveva tremendamente paura.
Ma, più di tutti, aveva paura di quei piccoli, orrendi demonietti che gli punzecchiavano la testa, che vivevano sulle sue spalle, che gli davano il tormento quando restava da solo, senza neanche la luce a tenergli compagnia.

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