Capitolo dodici

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Il bambino osservava la mamma scrivere qualcosa al computer. Le dita pallide si muovevano rapide sulla tastiera, e gli occhi azzurri erano fissi sullo schermo, dal quale partiva una luce azzurrognola che le illuminava il viso di un pallore spettrale. La cosa un po' lo spaventava, ma non lo avrebbe mai ammesso. Lui era forte, non aveva paura di nulla!
-mamma- dovette chiamarla più volte per avere la sua attenzione. Quella neanche staccò gli occhi dal PC.
-lo sai che non mi devi disturbare mentre lavoro. Cosa c'è?
-che cos'è l'amore?
-un sentimento- ci mise un po' a rispondere. Non perché stesse pensando, ma perché era arrivata una nuova mail dall'ufficio.
-che tipo di sentimento?
-uno bello- rispose secca. Dopo poco, per togliersi dai piedi il figlio, aggiunse -quello che c'è tra me e tuo padre.
-quindi l'amore è baciarsi e vivere insieme?
-mh, sì- rispose leggendo la mail.
Il bambino se ne andò, rimuginando. Ne aveva sentito parlare in un libro, ma da quello che aveva detto la mamma sembrava un sentimento molto più superficiale di quanto avesse letto. A chi doveva dare retta, allora? Mah, la mamma di solito aveva ragione, e nei libri si tende ad esagerare. Avrebbe riportato quella schifezza in biblioteca al più presto, stabilì deciso.

Lovino era teso, ma si stava sforzando di mostrarsi rilassato. Per fortuna suo nonno aveva insistito per dargli qualche lezione di recitazione, e i due soldati davanti a lui sembravano ancora più agitati di lui. Uno sembrava avere sessant'anni, l'altro non raggiungeva i quindici. Tremavano come foglie. Quando si era presentato, quei due avevano appena avuto il coraggio di puntargli contro i fucili, che erano diventati cenere dopo una sua occhiata. Si era detto disposto a collaborare ad alcune condizioni. Primo, quella di essere spedito nella capitale, le altre le avrebbe spiegate ai loro superiori.
Era lì da due ore. Uno dei due aveva scritto via computer alla capitale, spiegando la situazione. Dopo meno di un quarto d'ora era arrivata una risposta, ovvero che avrebbero mandato dei mezzi per portare Lovino da loro. Nel frattempo si erano raccomandati di trattarlo nel migliore dei modi.
A quanto pareva, per i due soldati il migliore dei modi era farlo accomodare su una panca e offrirgli del caffé di merda, che per altro rifiutò. Già era nervoso di suo, ci mancava il caffé, sempre che potesse essere definito tale.
Finalmente un boato annunciò l'arrivo dei carri armati. I due soldati si misero sull'attenti quando entrarono i loro superiori. Lovino si limitò a un cenno del capo, senza neanche darsi la pena di alzarsi in piedi. Dalle finestrelle sporche intravide una ventina di soldati schierati fuori dalla caserma, decisamente meglio equipaggiati dei due che lavoravano lì. Dentro la caserma entrò uno che chiaramente era un generale, con due guardie pesantemente armate alle sue spalle. Il generale era alto, pallido, con i capelli chiari, gli occhi viola e un sorriso affabile. Non era armato, ma indossava un paio di guanti e aveva l'aria di uno in grado di ammazzare un uomo anche senza un fucile. Lovino non si fece intimidire, o almeno non glielo diede a vedere, e si alzò in piedi spolverandosi i pantaloni. Il generale aumentò il suo sorriso e gli tese la mano.
-mi è stato detto che ti sei finalmente deciso a collaborare.
Lovino osservò la sua mano tesa. I guanti erano di pelle scura, spessi, e all'apparenza dovevano tenere un caldo insopportabile, ma quel tipo indossava una sciarpa rossa intorno al collo dall'aria altrettanto pesante, quindi doveva esserci abituato. Doveva stringergli la mano o no? Forse era meglio mostrarsi collaborativo, ma quel tizio aveva l'aria di uno che rispettava la forza.
Il generale sembrò mal interpretare la sua esitazione. Si lasciò sfuggire una mezza risatina -non preoccuparti, i guanti sono progettati per proteggere chi li indossa dal tuo... talento- aveva l'aria invidiosa, come se lo avesse voluto lui quel "talento" -non mi farai niente.
Lovino annuì e gli strinse la mano. Quello aveva una stretta potente, che per poco non gli ruppe qualche dito.
-sono Ivan Braginski. Spero che la nostra collaborazione sarà proficua- dal sorriso con cui lo disse, sembrava intendere "spero che tu ti renda utile prima che io ti uccida".
-ho alcune condizioni.
Quello sembrò divertito -altrimenti che farai? Ci sono cento soldati qui fuori. Non puoi toccarli tutti prima che almeno uno ti spari, e sono tutti coperti dalla testa ai piedi dello stesso materiale dei miei guanti.
Lovino distrusse i fucili dei due soldati dietro di lui -non mi serve toccarli per ucciderli- di questo non ne era così sicuro -e le pallottole non mi fanno niente- questo invece era vero -quindi o ascoltate le mie condizioni, o vi uccido tutti e me ne vado.
Ivan lo scrutò per qualche secondo, senza il sorriso di prima. Lovino sostenne il suo sguardo. Se c'era una cosa in cui eccelleva, quella era la testardaggine. Alla fine quello tornò a sorridere -benissimo. Quali sono le tue condizioni?
-primo, essere portato nella capitale.
-sono qui a posta.
-secondo, voglio essere messo al corrente di tutti i risultati degli esperimenti che mi avete fatto e di quelli che mi farete. Voglio essere trattato come un vostro pari, non come un topo da laboratorio.
-va bene.
-terzo, voglio la libertà di entrare e uscire quando voglio, avere una stanza privata ed essere trattato come un fottuto essere umano.
Ivan inarcò un sopracciglio -perché vuoi uscire?
Lovino incrociò le braccia al petto e inarcò un sopracciglio -mi avete tenuto in cella per anni. Secondo te?
Si fissarono in cagnesco per qualche altro secondo, poi quello annuì -poi?
-quarto- quella era la richiesta più difficile -voglio incontrare il supremo.
Si aspettava di dover combattere per quest'ultimo punto, invece Ivan alzò le spalle -certo. Ti voleva incontrare lui stesso. Lo affascini, sai?- Lovino cercò di non mostrarsi troppo stupito -ci sono altre condizioni o possiamo andare? Siamo in ritardo.
-per ora è tutto.
-perfetto. Andiamo allora- sorrise ai due soldati della caserma, facendoli sobbalzare, si voltò e se ne andò, con Lovino al seguito.

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