Capitolo diciannove

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Ma buonsalve a tutti. Oggi (almeno per me) è l'ultimo giorno di scuola. Mi sentite piangere di gioia sì? Allert: robe pesantine, dall'inizio alla fine praticamente ;D Buona lettura


Il ragazzino osservava l'uomo davanti a lui. Era brutto, concluse, ma non era una novità. Di rado arrivavano clienti decenti, anzi si può dire che non fosse mai capitato, e lui ne aveva visti tanti, di clienti.
-sei proprio bello come dicevano- gli disse l'uomo, accarezzandogli il viso con una mano sudata. Il ragazzino glielo lasciò fare.

Un tempo forse avrebbe protestato. Un tempo avrebbe pianto, urlato, avrebbe morso la mano all'uomo fino a lacerargli la pelle e lasciarlo sanguinante per terra, sarebbe scappato, o almeno ci avrebbe provato. Ma sulla sua schiena c'erano i segni di tutte le volte che aveva tentato di protestare, tutti accuratamente coperti con del trucco. Al solo pensiero di ribellarsi sentì la pelle rabbrividire, e i peli, quei pochi che gli lasciavano, rizzarsi. No, non era il caso di farlo, così come non era il caso di fare errori.
-voglio del vino rosso. Sai farlo, vero?
E il ragazzino neanche perse tempo ad annuire. Toccò la coppa dell'uomo, piena d'acqua, e quella si riempì di quel liquido scuro che aveva imparato a odiare. Così era facile. Di solito gli facevano richieste molto più specifiche.
-ma che bravo. Sei proprio un dono divino- gongolò l'uomo, bevendone un sorso. Sulla sua pelle sudata spiccava una croce -è davvero buo...
La voce gli si troncò in gola. L'uomo cadde a terra. Il ragazzino neanche sobbalzò, si limitò ad arretrare, disgustato, quando quello vomitò vicino a lui, sporcando il tappeto pregiato.
Il ragazzino immaginò che anche fuori ci fossero scenari simili. Gli ci era voluto un po' per imparare a trasformare anche a distanza, e ancora di più per trasformare ciò che era già stato bevuto, ma c'era riuscito.
Uscì dalla stanza. I braccialetti tintinnarono contro i suoi polsi scarni e le sue caviglie. Lo tenevano volutamente magro, per farlo sembrare più piccolo. Tirò un calcio al cadavere del proprietario del circo e passò oltre, senza neanche guardarsi indietro. In tutta quella morte sembrava quasi un angelo, così piccolo e vestito di bianco, con quel trucco sul viso atto proprio a farlo sembrare una creatura divina, una naiade magari, un creatura dei fiumi uscita da un qualche racconto.
Imparare a trasformare l'acqua in vino avvelenato era stato facile invece. Rendere quel veleno impercettibile era stato un gioco da ragazzi.
La pianta dei suoi piedi nudi calpestò dell'acqua caduta a una donna, che al suo passaggio divenne rossa come il sangue.
Fuori lo aspettavano due persone.
Un uomo, questa volta bello, che lo osservava con un sorriso paterno, genuino questa volta; e un ragazzo all'incirca della sua età, che lo scrutava preoccupato.
Il ragazzino si fermò davanti al coetaneo. Lo guardò negli occhi per qualche secondo. Azzurro contro verde.
Poi gli gettò le braccia al collo e scoppiò finalmente a piangere.

Feliciano stava disegnando da più di due ore, ma non era ancora soddisfatto. C'era qualcosa che non lo convinceva.
Sbuffò, chiuse il suo taccuino, lo posò a terra e si lasciò andare contro la parete alle sue spalle.
Da qualche giorno aveva preso l'abitudine di nascondersi in camera di suo fratello per disegnare, ma quel giorno proprio non riusciva a concentrarsi. Quella notte Gilbert avrebbe visto suo fratello e avrebbe portato loro sue notizie, se tutto fosse andato bene. Altrimenti...
Feliciano imprecò sottovoce. Di sicuro avrebbe dormito ancora meno del solito quella notte, probabilmente non avrebbe chiuso occhio direttamente.
Cesare gli si strusciò contro per chiedere un po' di coccole, che il ragazzo fu felice di dargli.
-manca anche a te, ve?- Cesare miagolò, venendo incontro alle sue carezze.
Feliciano puntò lo sguardo davanti a sé, incontrando la finta finestra che aveva dipinto per suo fratello. Quando Antonio era partito per farsi chiudere in cella con lui, Feliciano aveva passato tutto il mese successivo a lavorare a quella finestra. Non voleva che suo fratello soffrisse di claustrofobia stando lì, e quello era il modo migliore che gli era venuto in mente per evitarlo. Ne aveva disegnata una anche nella camera di Antonio per ringraziarlo, ma a quella di suo fratello aveva dedicato un mese intero di cure. Può sembrare esagerato, ma voleva che tutto fosse perfetto. Giorni per decidere il colore, ore e ore passate per dare luce nei punti giusti, settimane chiedendosi se lo spessore del telaio fosse troppo o troppo poco. Non si era firmato, nessuna finestra aveva una firma, ma Lovino sembrava averlo apprezzato, e quello per lui era abbastanza.
Si alzò, ignorando le proteste del gattino. Qualcosa, una sensazione alla bocca dello stomaco, una sorta di filo invisibile che gli partiva dall'ombelico, lo attirava verso quella finestra. Sentì il rumore della matita che teneva ancora in mano cadere in terra, ma non se ne curò. Posò la mano sul telaio e, per qualche assurdo motivo, spinse in avanti.
E
   La
      Finestra
         Si
            Spalancò
Rivelando il paesaggio che aveva immaginato mentre dipingeva.
Un mare verdognolo, cristallino, come ormai non esisteva più, che si estendeva a perdita d'occhio. Il cielo azzurro, terso, con un lieve accenno di nuvole all'orizzonte. La sabbia morbida, che sembrava invitarlo a seppellirci i piedi nudi per sentire i granelli attraversargli le dita e che cedeva presto il posto a una serie di colline, ricoperte da un manto verde d'erba e da una fitta foresta, e di montagne, che si stagliavano ostinatamente contro il cielo.
Feliciano allungò la mano oltre la finestra, senza incontrare nessuna resistenza; inspirò l'aria limpida, pulita, con un lieve sentore di mare. Guidato da quello strano istinto, scavalcò la finestra, incontrando finalmente la sabbia, che attutì la sua piccola caduta accarezzandogli le caviglie. Era al confine tra la spiaggia e le montagne, in quella zona neutra che non era nessuna delle due cose. Esitò, poi si diresse verso il prato, sentendo ora l'erba umida contro la pianta del piede. Si chinò e raccolse un fiorellino giallo.

Riaprì gli occhi. Si guardò intorno.
Era di nuovo in camera di suo fratello. La finestra era chiusa. Cesare lo scrutava con i suoi occhi verdi, muovendo la coda lentamente, come per studiare le sue reazioni. Il taccuino al suo fianco era aperto, e la matita teneva il segno su una pagina aperta.
Tirò un sospiro di sollievo. Si era sognato tutto.
Poi abbassò lo sguardo. In mano teneva ancora quel fiorellino. Nella pagina in cui era fermo il taccuino, era disegnato il paesaggio che aveva visto, con tanto di sua firma.
Sobbalzò quando bussarono alla porta.
-Feliciano? Sei qui?
-arrivo!- esclamò, alzandosi di scatto.
Infilò il fiore nella pagina aperta e chiuse il taccuino, infilandoselo in tasca insieme alla matita. Cesare seguì i suoi movimenti con attenzione, restando dietro di lui quando quello andò ad aprire.
Dall'altra parte c'era Ludwig.
-ciao!- esclamò, forzando un sorriso.
-ciao...- il biondo lo squadrò sospettoso -hai saltato la cena. Stai bene?
-la c...- gli morì la voce in gola. Puntò lo sguardo sull'orologio appeso alla parete. Erano le nove e mezza. Tornò a guardare il suo ragazzo e sforzò una risatina -stavo disegnando e ho perso la condizione del tempo- strinse il taccuino nella sua tasca -sai come sono fatto...
Il tedesco sospirò, esaperato. Parve bersela.
"Perché non dovrebbe crederci?" si rimproverò mentalmente "alla fine è quello che è successo. Hai perso la cognizione del tempo e ti sei addormentato. Tutto qui"
-devi stare più attento- lo sgridò senza crederci veramente, con un mezzo sorriso dolce.
-scusa, Luddi.
-andiamo a vedere se è avanzato qualcosa, ti va? Devi mangiare.
Feliciano abbozzò un sorriso -va bene, Luddi, andiamo.

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