Capitolo 18.

904 48 9
                                    

Camminavo nel corridoio, era quasi ora di cena. Feci per entrare nella mia camera e lo vidi. Ancora una volta, appoggiato al muro, con lo sguardo perso chissà dove. Venni travolta dalla sensazione di conoscerlo già.
Mi avvicinai cauta, quasi avessi paura di svegliarlo dal suo coma: «Ciao.»
«Ciao.» Insieme con la sua aurea malinconica perenne percepivo qualcos'altro, per la prima volta: sembrava triste. I capelli gli ricadevano bagnati sulla fronte, era stato fuori.
«Sei bagnato, dovresti asciugarti o ti ammalerai» gli feci notare gentilmente.
Fece un sorriso triste dicendo: «E a te cosa importa se mi ammalo?»
«Non lo so. Cioè io... Oh insomma, dicevo per gentilezza!» Se pensava di risolvere i suoi problemi relazionali continuando a comportarsi come un cavernicolo, non avrebbe fatto molti passi avanti. Lui alzò gli occhi, erano carichi di una sofferenza che non avevo mai visto prima. Fu come una freccia conficcata nel petto, e mi sentii orribile.
«Ti prego, vattene.»
«No.» Abbassò nuovamente lo sguardo, la mia negazione sembrava averlo fatto rassegnare.
«Se non ti asciugherai tu, lo farò io.» Entrai nella sua camera a grandi falcate, prendere decisioni affrettate su due piedi era la mia specialità. Se poi si trattava di dare una mano a qualcuno in difficoltà che non aveva nessuna intenzione di farsi aiutare, allora diventava una sfida personale. Sapevo essere terribilmente cocciuta. La stanza era identica alla mia,  anche se non pensavo che qualcuno al mondo potesse battere il mio disordine. Mi infilai in bagno e lo sentii dire: «Così mi rendi tutto più difficile»
Presi un asciugamano. Gli tamponai la fronte e vidi una ferita sulla tempia sinistra che prima non avevo notato. «Sei ferito...» Non avevo idea del perché, ma mi impietosii di nuovo. Sembravo una bambina davanti ad un cucciolo infortunato, e un po' mi dava sui nervi.
Presi tutto l'occorrente per medicarlo e gli misi un piccolo cerotto, sfiorandogli la pelle con le dita.
Sembrava fatto di perfetta porcellana in tutto il suo pallore. Vidi un graffio anche sul collo e mi ricordai di Aaron. Una sensazione nauseante mi invase lo stomaco. Mi imposi di non pensarci, ma più mi sforzavo più pareva che il mio cervello non avesse intenzione di collaborare. Mi mancava. Il mio sguardo si intristì, e mi bloccai quando stavo per mettere un cerotto anche sul collo.
«Che cosa c'è? Non ti sto congelando adesso.»
I miei occhi si riempirono di lacrime. Lui pose l'indice sotto il mio mento e osservò incuriosito le piccole gocce che scendevano lentamente. .
«Tu, piangi?» La sua voce era vellutata, morbida, dolce come il miele. Le sue pupille si erano dilatate, come se non gli fosse mai capitato prima di vedere qualcuno versare delle lacrime. Come se non le avesse mai versate lui stesso. «Oh, non fa niente» dissi asciugandomi in fretta « È perché mi ricordi tanto una persona che forse non vedrò più. La tua voce, i tuoi gesti persino» sussurrai.
Lui mi guardò indeciso, come un medico alle prime armi che non sapeva dove mettere le mani. «Non sono sicuro di sapere come funziona in questi casi» disse avvicinandosi al mio orecchio con cautela: «Mi dispiace. Credo che sia quello che dite voi.» Ero confusa e frastornata. «Ma chi sei tu?» chiesi con un filo di voce, inchiodandolo con gli occhi. Lui ricambiò brevemente lo sguardo, e mi diede l'impressione di qualcuno che voleva mantenersi sulla difensiva a tutti i costi. 
«Posso leggerti?» chiesi. Lui mi guardò spaventato. «No. Non puoi farlo. Non permetterei a nessuno di fare una cosa simile, figuriamoci a te. Adesso devo andare, grazie per la medicazione.» Sparì sbattendo la porta in un lampo. Beh, se non altro era tornato lo stesso di sempre. Rimasi interdetta in corridoio finché Marta non mi trovò, ero seduta contro il muro e fissavo il vuoto, mi disse che si era spaventata molto nel vedermi in quello stato e che all'inizio nemmeno rispondevo quando mi chiamava. Ero in uno dei miei momenti di pensiero profondo. Decisi che sarebbe stato più saggio raccontarle l'intera faccenda.
«Quel tipo non me la racconta giusta, Mati. E poi tu perché ti sei messa a medicarlo e tutto il resto? Io non l'avrei fatto» aggiunse con una punta di cinismo.
«Non lo so, sentivo che era la cosa giusta da fare in quel momento. Marta, ti manca mai qualcuno così tanto che vorresti strapparti il cuore e lanciarlo via?» Non avevo idea del perché avessi confessato una cosa simile.
Lei fece cenno di no con la testa. E io mi sentii sempre più sconfitta.
In mensa lo cercai con lo sguardo, ma del ragazzo misterioso di cui ancora non sapevo il nome, sembrava non esserci più traccia. Cercai di distrarmi per quanto possibile, il purè di patate che servivano per cena era sicuramente un valido alleato per combattere le brutte sensazioni. Avrei avuto voglia di gettarmi su un divano, arrotolarmi intorno una coperta di plaid e non uscirne più.
Purtroppo la serata prevedeva un programma del tutto alternativo: era arrivato anche per me l'inizio dell'addestramento vero e proprio, quello che doveva prepararci alla guerra. La Guerra. Tutti ne parlavano mettendosi le dita sulla bocca, timorosi che chiunque avesse pronunciato quelle parole avrebbe potuto scatenare davvero il conflitto.
Mi era stato detto che avremmo lavorato in coppie. Non che mi sentissi in forma, e per di più non avevo idea di come si impugnasse un'arma. Mi sarei rifiutata categoricamente di usare pistole o cose simili, piuttosto avrei preferito l'arco e le frecce o una spada. «Signorina Nachtregen» la voce del preside Heinrich mi ridestò «Venga, le presento il suo allenatore serale». Avevo la voglia sotto i piedi e speravo solo che finisse presto. Già immaginavo un ragazzino smilzo e pieno di brufoli che sputava mentre parlava. Sarebbe stato un allenatore disastroso. «Ecco Raphael, questa è Matilde Nachtregen.» La mia mascella toccò terra. Non era possibile, doveva essere illegale mostrarsi così in pubblico. Sbiancai, ingoiando un fiotto di saliva, sentii il mio termometro ormonale raggiungere livelli stellari.
Era splendido. I suoi occhi verdi come l'erba in estate, i suoi capelli biondo cenere erano tagliati corti.
Mi si avvicinò e per poco non svenni. Ti prego non parlarmi, non parlarmi...
«Ciao, io sono Raphael, sono l'angelo che può guarire il corpo, la mente e lo spirito, principe della bellezza e della vita, al tuo servizio» sorrise. Le sue labbra erano carnose e rosee, il suo viso squadrato, e la sua voce era un grado di far vibrare qualcosa dentro l'anima. Era come una melodia, un canto meraviglioso. Al mio serv... Cosa?
«Vuoi stare lì ferma a guardarmi tutto il giorno o possiamo procedere?»
Io arrossii, non mi ero accorta di averlo fissato tanto sfacciatamente per tutto il tempo. Il preside Heinrich rideva sotto i baffi, visibilmente compiaciuto. Chissà che non avesse intuito che avevo bisogno di una distrazione. Perfido.
«Io... Ehm scusami. Angelo della bellezza, cioè wow... D-Dio ci ha azzeccato col nome!» Mi tappai la bocca. Oddio, gli avevo appena detto che era bello. Ma come mi era venuto in mente.
Lui scoppiò a ridere, totalmente incurante: «Non preoccuparti, sono onorato che tu apprezzi. Ma adesso facciamo sul serio, dovrò insegnarti a maneggiare una spada, uno scudo e contemporaneamente i tuoi poteri. Sei già a conoscenza delle tue specialità?» Era chiaro che doveva essere abituato alle attenzioni femminili. E maschili. E animali... Santo cielo, era impossibile non perdere la testa standogli e meno di un metro di distanza.
«I-In realtà no. Sono arrivata pochi giorni fa e tutto quel che so è che sono una lettrice di anime. Ah, a proposito, mi chiamo Matilde.»
«Lo so.» Avrei voluto sotterrarmi. Cervello chiama Terra, rispondete!
«Hai un bellissimo nome, Matilde.» Lo ringrazia mentalmente per non avermi fatto fare ulteriormente la figura della cretina. Senza che me ne fossi accorta avevamo camminato fino ad una palestra, identica a quelle che c'erano nelle scuole sulla Terra. Solo che questa era molto più bella e attrezzata. Il soffitto era composto da un' interminabile lamina di vetro, che lasciava ben distinguere le stelle sopra le nostre teste. Rimasi stregata da quel tetto. «Sei una lettrice, allora» iniziò lui con gentilezza. «Quindi toccandomi puoi leggere dentro la mia anima.» Detta così, sembrava una cosa spaventosa, e forse lo era. «Prima di cominciare gradirei avere un'idea più complessiva dei tuoi talenti, se non ti dispiace. È un po' come creare la tua personale scheda di allenamento.» Annuii e stetti in silenzio. Tutte le volte che aprivo la bocca facevo danni livello tornado. «Testiamo subito ciò che sai fare. Alcuni riescono a parlare col pensiero, prova a dirmi qualcosa; concentrati, fissa le parole, imprimile nella mente e poi mandamele, fai in modo che escano da te per raggiungermi.»
Chiusi gli occhi, mi venivano in mente poche cose da dire, optai per un semplice 'Ciao'. Mi concentrai il più possibile. Riaprii gli occhi, lui era ancora davanti a me. «No, questa non è la tua specialità» ridacchiò, dovevo aver fatto una faccia particolarmente buffa. Mi strinsi nelle spalle. «Ops...» fu tutto quello che riuscii a dire. «Infatti me lo sentivo, non preoccuparti. Però oserei dire che forse...» Un lampo sembrò attraversargli gli occhi, che scintillarono. «Matilde ascoltami bene: prova ad immaginare ancora delle parole e poi toccami.» Eseguii gli ordini ubbidiente.
Gli appoggiai la mano sul petto e pensai intensamente: sei davvero un bravo insegnante se riesci a farmi fare qualcosa di utile. Lui mi guardò sorridendo: «Sbalorditivo». Mi invitò a sederci per terra, e io eseguii contenta; mi sentivo stranamente svuotata, probabilmente non ero ancora in grado di dosare le mie energie. «Ci sarebbe un dettaglio di cui devo parlare, per correttezza... lavorativa? Se così posso chiamarla.» Ero molto curiosa. Lo ascoltavo attentamente. «Credo che ti abbiano insegnato già qualcosa su di noi. Io e i miei fratelli siamo sette, gli Arcangeli maggiori.» Sette? E io che credevo fossero solo tre! Oddio fratelli? Raphael aveva dei fratelli. Un pool genetico da bava alla bocca, di questo ero sicura. «Sì, siamo tutti abbastanza passabili esteticamente» mi rispose con nonchalance. «Che hai detto?! Ma come... Tu mi leggi nel pensiero?» Se qualcuno nelle vicinanze aveva una pala, era il momento di passarmela. Avrei scavato chilometri sotto terra sperando di non vederlo mai più. «Beh questa è una parte del dettaglio...» disse mettendosi una mano fra i capelli. «Avresti potuto dirmelo prima» dissi mettendo il broncio. «Hai ragione, ti chiedo perdono. Sono ancora giovane, e qualche volta mi piace bighellonare.» Le sue scuse erano sincere, e a dire la verità non riuscivo ad essere arrabbiata con lui nemmeno per un istante. Voglio dire, come si poteva avercela con una creatura tanto Alta e celestiale?
«Il fatto che io sia uno degli angeli superiori mi permette di sbirciare nel tuo pensiero. E poi c'è anche il fatto che... Beh si da il caso che tu sia una dei miei pupilli.»
«Non stiamo parlando dei mariti delle pupille, giusto?» Pessima battuta, ma lui rise ugualmente.
«No, niente del genere. Ognuno di noi può scegliere se occuparsi di qualcuno. Fra le persone che ho scelto, ci sei anche tu.» Quella statua granitica dagli addominali di marmo era il mio angelo custode? Okay, forse la mia vita non faceva poi così schifo. «Posso sentire i tuoi bisogni, le tue paure, i tuoi sentimenti a trecentosessanta gradi, se mi concentro un attimo.» Ero sbalordita. Doveva essere tremendamente difficile. E poi perché fra tante persone scegliere proprio me? «C'è un progetto per ognuno, Matilde. Tu sei il mio progetto.» Quelle parole fugarono ogni mio dubbio. Non avrei chiesto niente di più. «Tu sei una mia pupilla, posso leggere nel tuo pensiero come tu leggi le anime della gente, solo che io non devo toccarti.» Avevo la bocca spalancata. Davvero fantastico.
«Va bene» dissi per sdrammatizzare «Prova a leggermi, pivellino.»
Lui sorrise malizioso: «Pivellino a me? Bada a come parli, sei la mia allieva.»
«L'allieva prima o poi dovrà superare il maestro.»
Con un balzo mi ritrovai attaccata al muro con Raphael che mi fissava intensamente negli occhi e mi teneva ferma. «Pivellino eh?» Io sorrisi imbarazzata, era forte, ed estremamente veloce. La novellina qui ero io. Era talmente sinuoso da sembrare etereo, e quando si muoveva sembrava che danzasse.
«Avanti, provaci» lo incitai.
Lui chiuse gli occhi, io sentii come se qualcosa stesse premendo contro la mia fronte, ma non volevo lasciarlo passare. La mente era mia, non sua.
Aprì gli occhi confuso. «Hai il lucchetto.»
«Il cosa?» piegai la testa di lato.
«Quando qualcuno prova ad entrare nei tuoi pensieri tu sbatti la porta e blocchi l'accesso. Solo tu sai qual è la chiave per aprirlo. Potresti essere abbastanza forte per estendere questa protezione.»
«Ed è una cosa negativa?» chiesi subito spaventata.
«No, anzi. È uno dei tuoi doni.»
«E allora perché sembri contrariato?» lo incalzai.
«Perché non potrò intrufolarmi nella tua testolina per capire cosa pensi di me» sorrise.
Era molto dolce e genuino. Sembrava incapace di mentire. Non avevo mai incontrato una persona del genere. O meglio, un angelo del genere. In realtà non avevo mai incontrato un angelo in vita mia, quindi ero più che giustificata all'essere confusa e in crisi ormonale.
«Quindi ho un lucchetto, e so trasmettere i miei pensieri. E inoltre li leggo anche agli altri.»
«Ti sei mai imbattuta in qualcuno che non riuscivi a leggere?» Feci cenno di no con la testa.
«Forse questo può significare che sei in grado di sorpassare quelle degli altri.»
«Oh Oh! Sono più forte di te allora!» esclamai euforica.
«Questo lo vedremo col tempo, signorina.» Mi scappò uno sbadiglio.
«Raphael, che ore sono?»
«Il nostro tempo è scaduto, ci vediamo domani sera.»
«Dove vai adesso?» chiesi incuriosita.
«A salvare belle giovani fanciulle in difficoltà, ovviamente» disse in tono serio. Sentii una punta di amarezza. «Sto scherzando, vado a letto. Per oggi ho lavorato a sufficienza»
Feci un sospiro. «Io sto al terzo piano, stanza diciassette.»
«Mi stai invitando in camera tua, pupilla?» mi punzecchiò.
«Cosa?! No! Non pensarci neanche!» tentai di ribattere ma lui si stava già sbellicando dalle risate.
«Si da il caso, mia cara, che io attualmente risieda al numero diciannove del suo stesso piano. Mi farebbe l'onore di accompagnarmi?»
«Se smetti di fare il signore d'epoca, volentieri» dissi ridendo per il suo improvviso slancio di cavalleria. Se all'inizio del nostro incontro ero imbarazzata e intimorita dalla sua presenza, ora mi trovavo perfettamente a mio agio nello scambiare i miei pensieri con lui. Forse era frutto del nostro legame, che a quanto pareva doveva avere origini più lontane di quanto immaginassi, e un significato che ignoravo totalmente. Forse Raphael aveva qualcosa di speciale. In ogni caso dovevo smetterla di fare supposizioni, mi faceva venire il mal di testa. Sorrise e mi fece cenno di raggiungerlo. Lo guardai camminare: era alto, almeno 20 cm più di me. La sua felpa grigia cadeva a pennello sul suo fisico asciutto e tonico. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni morbidi che lo facevano sembrare ancora più slanciato. Il suo passo era sinuoso ed elegante. Schöner Arsch.
«Matilde, capisco il tedesco.»
«A-Ah sì? E che ho pensato?»
«Che ho un bel culo.» Ops, beccata di nuovo. Era divertente, però.
«Raphael?»
«Sì, pupilla?»
«Se gli angeli sono eterni, e tu hai diciotto anni, avrai diciotto anni per sempre?»
«Sì, sarò un bel giovane per l'eternità. Dopo tutto i miei pupilli hanno bisogno di me.»
«E io? Io invecchierò?» Il pensiero adesso mi faceva sentire stranamente a disagio.
«No, non invecchierai. Anche tu ti fermerai con la crescita, mi pare a diciannove anni» disse lui guardando il soffitto con fare pensieroso.
«E perché i miei nonni sono diventati vecchi e poi sono morti?»
«Perché non erano i tuoi veri nonni. Erano nonni umani.»
«Forse dovrei chiedere spiegazioni a mia madre. Ha detto che i miei nonni sono membri del Consiglio.»
«I membri che vengono eletti per il Consiglio, vengono eletti prima del momento di arresto della crescita, quindi loro invecchiano come delle persone normali. Tua madre, per quanto ne so, non è una Lettrice, quindi è stata data in affido ad una famiglia di umani che conoscevano il segreto. Quegli umani magari erano i tuoi nonni che ora sono morti. Ma i tuoi veri nonni, te lo assicuro, sono ancora nel Consiglio.»
«Dici davvero?! Vorrei conoscerli!» dissi emozionata.
«Magari domani. Adesso siamo arrivati, è ora di dormire.»
«Raphael?»
«Sì, pupilla?»
«Grazie, e buonanotte. Ci vediamo domani.»
«Buonanotte Matilde.»
Entrai in camera con un grande sorriso sul viso. Raphael era, incredibile, paziente, simpatico. Chi avrebbe detto che gli angeli hanno senso dell'umorismo?
Il giorno dopo, finita la colazione, oltre alla solita divisione per specie, noi lettori fummo divisi anche per le specialità che avevamo. Indovina, indovinello, con chi fui messa in gruppo? Elidia.
Dovevamo fare un esercizio pratico, anche lei possedeva un lucchetto: lei doveva cercare di infrangere il mio e viceversa, a turno.
Cominciò lei ovviamente. Doveva essersi allenata molto più di me, perché a stento riuscii a tenerla fuori dai miei pensieri, la pressione sulla fronte si faceva quasi insopportabile a volte, credetti perfino di cedere ad un certo punto, ma lei dopo un numero di tentativi che non osai contare, si arrese.
«Tu e il tuo maledetto scudo mentale, prenderò zero al prossimo test, per colpa tua.»
«Sei tu che non sei abbastanza forte da infrangerlo, io mi limito a fare ciò che devo» ansimai, ero davvero stanca, ed era arrivato il mio turno.
Un sorriso di pura perfidia le balenò sul volto troppo perfetto che si ritrovava.
«Bene, stronzetta. Adesso prova tu.» Tutto quell'astio mi era familiare, mi avevano detto di peggio e avevo imparato a difendermi. «Volgare, pulisciti la bocca.»
Piantai le mani sul sedile della sedia su cui stavo, di fronte alla mia avversaria, e pensai ai consigli di Raphael della sera prima.
Ci vollero esattamente due minuti per infrangere la sua barriera, e mi sembrò fin troppo facile.
Infatti Elidia non aveva ceduto casualmente, voleva che io vedessi.
Mi ritrovai catapultata in un suo ricordo senza che io potessi uscirne, o controllarmi. Ero spettatrice di una Elidia raggiante che andava in contro al suo fantastico allenatore serale: il ragazzo dai capelli d'argento.
«Ciao tesoro» disse lei, mettendo subito le carte in tavola. Indossava una camicia eccessivamente sbottonata, semitrasparente, e un paio di leggins attillatissimi neri. Inutile dire che il suo davanzale era in bella vista agli occhi del ragazzo. Lui disse freddo: «Cominciamo.»
La fece allenare più o meno come avevamo fatto io e Raphael, parlando delle varie specialità dei lettori, quando all'improvviso lei gli si attaccò, mettendogli le braccia intorno al collo e dicendo: «Non prendiamoci in giro. Sappiamo entrambi che ci sono modi migliori di trascorrere il tempo dell'allenamento.» Lui le scoccò uno sguardo lascivo e  senza neanche finire il discorso iniziarono a baciarsi; nonostante fosse lei che aveva in mano la situazione, lui non si ribellava affatto, anzi, la assecondava. Il ricordo finiva con un «Ci vediamo nella mia stanza stasera alle dieci dopo l'addestramento. Va bene, Howl?» pronunciato dalle stupide labbra piene di gloss di Elidia. Si conoscevano. E avevo scoperto il suo nome.
Quando riuscii a tornare alla realtà, la guardai e dissi: «Perché?»
«Vi ho visti l'altro giorno, quando lui era bagnato e l'hai asciugato. Ci hai provato troietta, ma non ha funzionato. E sai perché? Lui è mio. Chiaro?» Sputare veleno e sentenze doveva essere uno sport in cui eccelleva.
«Sbagli, io non ci ho provato con nessuno. È tutto tuo.»
«Sta' lontana da lui» il suo ringhiare da femmina alfa mi faceva quasi pietà. 
La guardai con odio. Non poteva scegliere lei chi potevo o non potevo frequentare. Che poi, alla faccia del frequentarsi, lo vedevo di sfuggita una volta ogni tanto. Non parlavamo mai.
Mi alzai, consegnai i miei risultati alla professoressa Nachtregen e feci per andarmene, ma lei mi fermò: «Matilde, stai facendo un ottimo lavoro, so che diventerai molto potente. Tua madre ti saluta, e mi ha detto di darti questo» mi porse un rotolo di pergamena «Leggilo.»
«Grazie professoressa, lo farò» sorrisi e mi avviai verso la mensa. Avevo una fame da lupi.
Trovai Marta che si lamentava con la signora che distribuiva il pranzo perché sosteneva di aver chiesto pasta all'olio e invece c'era pasta al pesce.
«Le dico che ho fatto richiesta stamattina!»
«Qui abbiamo tre piatti di pasta all'olio e su nessuno c'è scritto il tuo nome, quindi prendi ciò che ti spetta e vattene, blocchi la fila.»
« No. Non ho intenzione di muovermi» la guardò con astio.
«Ehm, ciao Marta, signora sono Matilde Nachtregen, io ho chiesto la pasta all'olio, la mia c'è?»
«Sì, ecco a te» disse la donna cambiando subito atteggiamento.
«Può darmi anche un piatto di quella al pesce?»
Misi quella all'olio sul vassoio di Marta che mi guardò adorante, e io mi accontentai dell'altro piatto.
Ci sedemmo a tavola, tranquille, e lei cominciò: «Allora.»
«Allora...»
«Beh ecco...»
«Marta? C'è qualcosa che mi vuoi dire?»
«No... S-Sì. Cioè... Insomma. Non è che... Hai presente gli allenamenti in coppia?-
«Mmh» bofonchiai. I ricordi di Elidia mi frizza anno ancora addosso.
«Sono capitata con uno stregone, si chiama Jeremy, è...» si incantò guardando il vuoto.
Le schioccai le dita davanti: «Hey, terra chiama Marta, mi ricevi? Com'è questo Jeremy?»
«È fantastico Matilde, devi conoscerlo!»
«Avanti, descrivimelo» il suo sguardo si illuminò e lei sembrò diventare una lampadina.
«È alto, moro, muscoloso, intelligente, dolce e davvero, davvero, davvero, sexy.»
Scoppiai a ridere. «Marta lo sai che sei diventata una specie di lampadina vivente? Emani luce!»
Lei mi guardò un momento interdetta e aggiunse: «Ehm, mi succede ogni tanto, quando sono particolarmente emozionata ecco.»
«Vedi di non brillare così con lui altrimenti scapperà» e ricominciai a ridere. Questa volta si unì anche lei e insieme formammo una sorta di pace ed equilibrio che mi facevano sentire amata e protetta. La sua felicità mi contagiava, e io contagiavo lei.
«Mati.. So che ci conosciamo da poco, ma sei la migliore amica che io abbia mai avuto.»
«Oh Marta, mi farai venire le carie ai denti, la tua dolcezza mi spiazza. Per me è lo stesso»dissi piacevolmente sorpresa.
Mi alzai da tavola e la strinsi in un abbraccio davanti a tutta la mensa. Nessuno commentò anche se ci guardarono storto, e noi uscimmo dalla stanza ridendo come matte.
«Insomma, questo fantastico Jeremy, com'è fisicamente?»
«È... Un dio. Giuro. Ha i capelli neri come il carbone, delle labbra troppo perfette per essere vere. E tieniti forte... Dei meravigliosi occhi viola.»
«Occhi viola?!» esclamai.
«Sì! È fantastico. E insegna troppo bene. Dovresti vederlo.»
«Mi permetti di farlo?»
«Fare cosa?»
«Dare una sbirciata» ammiccai.
«Vuoi leggermi?» disse con la bocca spalancata.
«Sì. Focalizza il ricordo del tuo primo incontro con lui, al resto penso io.»
La vidi chiudere gli occhi e io le toccai il petto nel centro, vicino al cuore, per sentire più dettagliatamente anche le sue emozioni.
Lui era davvero bello come diceva, ma non una bellezza convenzionale, erano davvero particolari quegli occhi, di un viola intenso, magnetico. Lo vidi camminare fluido verso Marta che lo mangiava con gli occhi. E per assurdo mi accorsi con l'andare del ricordo, che anche lui provava interesse per lei. La guardava come fosse in presenza dell'ottava meraviglia del mondo.
Tornai alla realtà, fu più facile che con Elidia. Già, Elidia. Quella serpe vanitosa.
«Marta, te lo mangiavi con gli occhi.»
«Era così evidente?» esclamò preoccupata.
«Solo un pochino... Ma, la buona notizia è che anche lui ti squadrava come un bocconcino prelibato» dissi io di rimando. Lei diventò di nuovo brillante e capii che le succedeva quando arrossiva. «Ed ecco la mia lampadina!»
Scoppiammo a ridere.
Ci separammo per le lezioni di teoria e per tutto il tempo Elidia mi squadrò dall'alto al basso come fossi un verme.
Terminammo prima del previsto e decisi di farmi una doccia.
Premetti il pulsante dell'ascensore.
Non voleva aprirsi. Premetti più volte e finalmente le porte si spalancarono.
Oh no. Lui no. Non ora.
Il ragazzo sconosciuto che finalmente aveva un nome, incontrò i miei occhi.
Non disse niente.
Salii e ci ritrovammo schiacciati, in una cabina.
Non sapevo perché, ma sentivo come una specie di forza che mi attirava a lui, più la combattevo più questa sembrava rafforzarsi. Mi guardò di sottecchi, sorridendo, e spinse il numero tre.
«Cos'hai da ridere?»borbottai.
«Niente.»
«Bene.»
«Grazie, per l'altro giorno.»
«Figurati.»
«Odio essere indebitato con qualcuno, se hai bisogno di qualcosa fammelo sapere» disse risoluto.
Ah è così che stanno le cose? Il mio gesto genuino interpretato come un oggetto di.. Baratto!
«Mi basta che tu ed Elidia non facciate troppo rumore stanotte, Howl.»
Le porte si aprirono e io uscii soddisfatta. Soddisfatta di cosa? Di tutto, di niente. Non avevo motivo di reagire così, potevano fare ciò che volevano, non era di certo affare mio. Ma allora perché mi dannavo così tanto l'anima?
«Come lo sai?»Il suo sguardo gelido era fisso su di me.
«Lo so. Punto. Smetti di congelarmi.»
«Te l'ha detto lei?»
«Peggio. L'ho visto. Ho visto tutto il vostro piacevole addestramento di ieri sera. Anzi, puoi farmene due di favori: dì alla tua amichetta che se prova a chiamarmi ancora 'stronza' sarò costretta ad ucciderla. Ah no, dimenticavo, sono contraria alla violenza sugli animali» dissi sarcastica.
Lui mi guardò e poi le sue labbra si schiusero in un sorriso sbilenco, frutto di una risata mal trattenuta.
«Glielo riferirò. Ti consiglio di placare la tua gelosia, bambina.»
«Ho un nome. E non sono gelosa.»
«Ma io preferisco chiamarti così.»
«Quindi se a me piacesse chiamarti cretino lasceresti che io lo facessi?»
«Certo.»
«Allora, arrivederci, cretino.»
Howl. Disse una voce nella mia testa.
«Non barare, non provare a comunicare col pensiero.»
«Posso violare la tua mente come e quando voglio.»
«Ma davvero? Scommetto di no.»
«Scommettiamo, mi piacciono le scommesse. Attenta bambina, sono pericolosi i patti col diavolo.»
«Certo. Cosa vuoi scommettere?»
«Se vinco io e riesco a leggerti nel pensiero, lascerai che io legga qualcosa di te, se invece vinci tu, leggerai qualcosa di mio.» La posta in gioco era alta.
«Scommetti o no?»
«Ci sto.» Il nostro botta e risposta era così rapido da sembrare un copione. Avvertii di nuovo la familiare pressione sulla fronte che ora si stava trasformando in dolore. Fitte alla testa. Ma dovevo vincere, dovevo sopportare.
Dopo dieci minuti passati sotto torchio lo vidi arrendersi.
«Sei... Potente» ammise molto sorpreso.
«Ho vinto.»
«Può essere...» sbuffò amareggiato.
«Adesso ti farai leggere» feci per appoggiare la mano sul suo petto ma mi fermò.
«Non lì. Preferisco qua» si indicò la spalla e io eseguii.
Tutto ciò che vidi fu nero. Un oceano immenso di nero. Come se un pittore si fosse divertito a utilizzare tutta la tempera nera che aveva su un foglio, riempiendolo per intero.
Sentii paura, dolore... Poi qualcosa cambiò, e tutto divenne grigio. Al posto di quelle sensazioni sentii stupore, disgusto, amarezza e mancanza. Una tremenda mancanza. Poi vidi me, i miei occhi bassi e le mie lacrime che sgorgavano fuori incontrastate e sentii comprensione. Poi confusione. Poi ancora rabbia. Un urlo profondo di rabbia cieca. E la mia mano fu rimossa dal suo posto, interrompendo il flusso di energia che sentivo entrarmi nelle vene.
«Basta così. Ora devo andare.»
E chiuse la porta con un tonfo, lasciandomi ancora una volta stranita, e piena di dubbi.

La figlia dell'Inferno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora