Capitolo 9.

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Una lettrice di anime. Stava scherzando, non è così? "Cosa sarei? Una specie di strega? Si spiegherebbe il fatto delle voci.. Oh no. Il dono, ecco di cosa parlavano i bambini quando sono arrivata qua. E mia madre lo sa? Forse dovrei parlarne con lei..."
Erano questi i pensieri che mi turbinavano in testa quando la serratura fece tre schiocchi per aprirsi, e mia madre entrò gridando: «Matildeeeeeee, dove diaaaaavolo sei?» aveva una voce strana. «Sono qua mamma, che succede? Sei sicura di star bene? Mi pare proprio di...» mi interruppe prima che io potessi finire la mia deduzione.
«Sto bene» crollò su una sedia, ridendo e piangendo allo stesso tempo. Poi si fermò, e fissando il vuoto biascicò qualcosa di poco udibile come: «Sono davvero così dannatamente sbagliata come moglie, come madre?» Era ubriaca. Di nuovo.
Lo ammetto, quando papà le disse della storia dell'altra donna, lei ricominciò a bere di brutto, ma andava meglio ultimamente. «Mamma... Sei di nuovo ubriaca non è così? Vieni... Ti porto a letto.» 
«Non toccarmi, ce la faccio da sola!» fece per ribellarsi. La aiutai comunque ad alzarsi, non volevo che cadesse per le scale e che magari si facesse male, mi rimaneva solo lei in fondo. Appena toccato il letto e dopo essersi liberata dei vestiti, sembrò stare meglio, quindi colsi l'occasione per farle qualche domanda... È palese, no? La verità la dicono solo i bambini, i pazzi e gli ubriachi.
«Mamma tu sapevi che io sono... Una... Ehm... Lettrice di anime?» i suoi sensi si attivarono repentinamente.
«Cosa? Come...Come l'hai scoperto Matilde?»
«Sento le voci, e quando tocco le persone, sento ciò che provano, che hanno provato.» Evitai di dirle come lo avevo scoperto, e dello spiacevole inconveniente avuto con il nostro affascinante e inquietante vicino.
Lei si fermò ancora, seduta sul letto. Guardai per l'ennesima volta il suo fisico snello. Aveva un viso ancora tanto giovane che mi sembrava una bambina nel corpo di una donna adulta.
«Beh, ormai lo sai, non possiamo tornare indietro, accidenti a tua nonna e a questa maledetta casa», biascicava.
Mi alzai dalla sedia su cui stavo seduta e uscii dalla camera in silenzio. Non avevo voglia di parlare di un argomento simile con una donna ubriaca travestita da mia madre. Il cellulare nella mia tasca sinistra vibrò all'improvviso: avevo un messaggio da un numero sconosciuto. E chi diavolo era questo? Lessi: Ciao, bell'addormentata.
Oh no. Non potevo crederci, Aaron. Prima se ne va da casa mia sganciando quella mega bomba riguardo i miei presunti poteri psichici e adesso se ne usciva così? Tu sei instabile bello! Nel senso che sei bello. Ma sei anche instabile. Dio, ero un'idiota.
Risposi: Ciao, non è esattamente il momento adatto per parlare.
Rispose: Che succede?
Digitai in fretta: Niente.. Mia madre è tornata a casa ubriaca e io penso di stare per scoppiare.
Avevo voglia di prendere a pugni qualcosa. O qualcuno. Dopo quella scenata, pensava di poter rimettere apposto le cose mandandomi un messaggio?
Oh signorina... Mi dispiace. Puoi aprire la porta adesso?
Era lì davanti a me, con un sorriso che prometteva una tacita risposta ad una domanda che si aspettava gli facessi. Ma non avevo nulla da chiedergli. «Aaron cosa vuoi?»
Avrei voluto prenderlo a calci e stringerlo a me allo stesso tempo.
«Accertarmi che tu non sia troppo provata. E dirti che ci ho pensato un po'.»
Il suo concetto di "un po'" era da rivedere, era passata forse un'ora da quando se n'era andato da casa con quel fare tragico. Mi morsi un labbro per starmene zitta. «Certo questa cosa della donna che ha ucciso quei bambini mi sembra che ti stia particolarmente a cuore, ma pretendo che tu mi informi riguardo ogni iniziativa che prenderai. Per sicurezza, insomma... se ti succedesse qualcosa...» si fermò interdetto. Mm, continua. «Beh meglio che non tu ti faccia male.»
Rimasi stranita da quella decisione improvvisa, o meglio, quella proposta che mi faceva, la proposta di diventare una sgangherata squadra di detective? Assurdo. Feci un bel respiro e pregai di non prenderlo a calci per i prossimi cinque minuti.
«Aaron, ci ho pensato anche io, e non saprei. Forse dovremmo starcene buoni, ho ancora i lividi per le botte dell'altro giorno. Insomma, capisci? È meglio se stiamo alla larga l'uno dall'altra» mi guardai le mani. Mi sentivo un'aliena. Se avevo visto quelle cose toccando lui, cosa sarebbe accaduto a scuola? Perché non me ne ero mai accorta prima? E perché lui sapeva quelle cose? Poi mi coprii gli occhi, una rabbia e un'infinita tristezza si stavano impossessando di me troppo velocemente perché io le potessi controllare. «Matilde guardami» alzai gli occhi. I ruoli si erano invertiti. Si fece più vicino, molto vicino, il suo respiro sfiorava gentilmente il mio orecchio sinistro e solo in quel momento mi resi conto di quanto calore e quanta forza emanasse quel ragazzo. «Ti fidi di me?» sussurrò. «Dovrei?» ingoiai la saliva.
«No.»
«E allora perché me lo chiedi?»
«Perché sto disperatamente cercando di dirti che o mi cacci malamente da casa tua, o sarò costretto a portarti sul divano e rassicurarti con un vocabolario adeguato finché non ti addormenti. Sarebbe solo per questa volta, e io non sono esattamente abituato a fare queste cose... insomma lo faccio perché prima ti ho detto quelle cose e sono stato davvero indelicato. Vorrei scusarmi.»
Quando pronunciò quelle parole, mi resi conto che non mi importava: poteva essere un mostro, uno strano inquietante ragazzo, poteva essere ciò che voleva, ma io avevo trovato la richiesta che lui aspettava quando gli avevo aperto la porta pochi minuti prima: «Aaron. Ti prego abbracciami.»
Non se lo fece ripetere. I nostri cuori battevano vicini e di nuovo sentii tanto dolore, tanta paura, una paura soffocante, chiusi gli occhi per non guardarla, ma le sue dita premevano perché io la affrontassi, voleva mostrarsi a me. Glielo permisi, e vidi cicatrici, segni sul corpo di un bambino diventato ormai grande, e vidi occhi troppo grandi e limpidi per quel viso martoriato. Mi staccai da lui. Eravamo sul divano. Nonostante fosse la seconda volta che usavo il mio... non sapevo come definirlo. Potere? Beh, mi sembrava che l'intensità e la chiarezza con cui lo percepivo fossero triplicate. «Aaron chi è stato?» chiesi, forse senza delicatezza.
Eccola, la sua guerra. Ecco il segreto che cercava di tenersi dentro da quando lo avevo notato, lo vedevo in quell'abisso azzurro, affiorare.
«Aaron ti prego parlami, dimmi cosa ti è successo. Perché sai che sono una lettrice di anime? Cosa cavolo è poi, una lettrice di anime?! Perché sei sempre così scostante? Perché ti importa così tanto di me da venire a casa mia per controllare come sto? Cosa sta succedendo? Chi siamo?» Sembrava che la mia valanga di domande lo avesse lasciato disarmato.
« Io... Ad alcune delle tue domande adesso non posso rispondere. Se sono 'scostante' come dici tu, è perché non ho altro modo di essere da molto tempo. Come fossi nato così, non so se rendo l'idea.»
Feci un sospiro. «Sì, capisco... Ma ho visto delle cicatrici.» Il suo volto si fece bianco come un lenzuolo. Con le dita che tremavano si alzò la maglia rivelando oltre ad un fisico slanciato e allenato, due linee sul petto che lo squarciavano, linee come disegni bianchi, anche sulle spalle e sulla schiena, esattamente dove le avevo viste ad occhi chiusi. Era come una strada asfaltata spaccata dalla potenza del ghiaccio. Era pieno di crepe, come un enorme Kenyon. «Rivestiti.» Era doloroso persino per me.
Si infilò di nuovo la maglia, e disse solo: «Non posso dirti ciò che hai bisogno di sentire, perché queste cicatrici che porto addosso non sono ciò di cui hai bisogno; perciò ti dirò che va tutto bene e che adesso, ciò che mi preme di più sei tu. Dobbiamo imparare a controllare il tuo potere, non puoi scavare dentro la gente ogni volta che tocchi anche solo un dito a qualcuno, e poi è una cosa molto intima. Sì ho detto 'dobbiamo', ti voglio aiutare, voglio capirci di più anche io in questa faccenda. Adesso guardami» mi prese il mento per costringere i miei occhi nei suoi. Ormai ci aveva preso gusto nel darmi ordini. «Non avevo mai notato quella sfumatura dorata vicino alla pupilla, sembrano scaglie d'oro.»
I miei occhi si riempirono di lacrime per le troppe emozioni provate in così pochi giorni, e mi lasciai andare contro il suo petto, singhiozzando silenziosamente, lasciando che le lacrime lo bagnassero, mentre le sue braccia mi tenevano stretta in una morsa ferrea. Forse aveva paura che io mi alzassi improvvisamente per far finire quella scena, ma non mi sarebbe mai passato per la testa di farlo. Stranamente, per una fortuita coincidenza di casi ed incontri, avevo trovato qualcuno da cui valesse la pena essere imprigionata. Nella morsa del ferro, mi sentivo al sicuro.

La figlia dell'Inferno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora