Capitolo 8.

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Il giorno successivo nel tragitto per arrivare a scuola, mi guardavo le spalle. Nessuno mi seguiva. Feci le prime ore di lezione e poi a ricreazione tentai di andare a prendere un caffè alle macchinette ma senza successo, erano troppo affollate come al solito. Avrei avuto voglia di ingozzarmi di cioccolata e schiacciata e qualsiasi cosa mi fosse passata tra le mani. "Beata adolescenza, spero che tu finisca presto", pensai. Con il broncio, consapevole che di lì a poco sarebbe finita la pausa per respirare un po' d'aria fuori dalla classe, ciondolavo nel corridoio. Entrai, e sul mio banco, un foglio. Ero sicura, prima quel maledetto foglio non c'era: un pezzo di carta chiara, quasi rosea, sul quale la scritta in bella calligrafia spiccava in rosso scuro: Ci vediamo all'incrocio prima di casa nostra, devo parlarti, scusa davvero per ieri. Non intendevo spaventarti.
Aaron.
Per un secondo sorrisi. La avvicinai al naso, e notai che odorava di fiori. Wow, la mia prima lettera da parte di un ragazzo. Peccato che si trattasse di Aaron, il mio strambo e oscuro vicino di casa. Rimuginai sugli argomenti possibili della nostra imminente conversazione e fantasticai sul modo in cui ci saremmo incontrati questa volta: mi avrebbe spinta ridendo? O forse mi avrebbe pestato un piede di proposito? O magari avrebbe fatto finta di nulla? O si sarebbe appostato dietro un albero per spaventarmi? Questa era una delle cose che mi facevano più paura di Aaron: non sapevo mai quel che gli passava per la testa. E forse era anche un bene, chissà.
Terminate le lezioni, non riuscivo a contenere l'emozione. Mi morsi la lingua per darmi un contegno.
Arrivai all'incrocio e non c'era nessuno. Aspettai. Poi un'ombra. Non feci in tempo ad accorgermi di chi fosse ma mi prese per un braccio scaraventandomi a terra. Mi rifilò un paio di calci nello stomaco e disse con un filo di voce che sembrava un ringhio: «Attenta ragazzina, non si mette il naso in affari che non ci riguardano, ricordalo sempre; oppure potresti avere spiacevoli incontri, e tu non vuoi finire male vero?» A quelle parole seguì una risata stridula terrificante, eppure la voce sembrava maschile... Pietrificata, non proferii parola. Era accaduto tutto così velocemente. Quella persona aveva fatto male anche ad Aaron? Perché mi cacciavo sempre nei guai? Rimasi a terra per tempo immemore, molto probabilmente svenni. Quando mi svegliai, una voce dolce come il miele e profonda come il sonno da cui ero reduce mi accarezzava le orecchie, e lo stesso facevano delle mani calde sui miei capelli. «Tranquilla, ci sono qua io. Ma in che casini ti vai a cacciare ragazzina? Possibile tu sia così maledettamente ingenua?» Mossi appena gli occhi, non riuscivo proprio a capire dov'ero e chi era quella persona così gentile che mi accarezzava e di tanto in tanto mi tamponava con qualcosa di freddo il gomito facendomi sentire un pizzicore fastidioso. Aprii finalmente gli occhi, sbattendo le palpebre. Ero a casa mia, sdraiata sul divano, qualcuno al mio fianco. «Salve bell'addormentata» finalmente lo riconobbi, la sua voce non era più vellutata, era roca e maschile. «Aaron? Perché sei qui?» Beh, almeno era vivo. E stava decisamente meglio di me.
«Perché ti ho trovato svenuta all'incrocio, sanguinavi.»
«Oh.»
«Già.»
Che figura di... lottai disperatamente per non arrossire come un pomodoro a luglio.
«Ti ringrazio per avermi aiutato. Spero di non averti disturbato, che ore sono?»
«Le sei, bell'addormentata»  disse lui con un sorriso leggero e amaro al contempo. Che strano nomignolo aveva scelto. Probabilmente era un modo sottile di offendermi a causa della mia goffaggine continua.
«Oddio, ti ho rovinato un pomeriggio intero!» esclamai dispiaciuta. Mi tirai su di scatto ma mi vidi costretta a ritornare nella posizione precedente. Una fitta terribile alle costole mi trafisse. Trattenni una smorfia.
«Non preoccuparti, non è stato poi così male. Ti eri ripresa ma poi ti sei addormentata di nuovo. Sai ti preferisco quando dormi, così quella lingua velenosa può starsene al suo posto.»
«Non offendere la mia lingua.»
«Com'è successo?» Uh, era così altalenante. Passava da un discorso all'altro tanto veloce che era difficile a volte stargli dietro.
«Dimmelo tu. Ho trovato un bigliettino sul mio banco che diceva che volevi incontrarmi, perché dovevi parlarmi, e alla faccia delle parole, mi sono guadagnata calci nello stomaco e un bel gomito sbucciato.» Il suo viso si contrasse in una smorfia che non riuscii ad identificare, poi cambiò all'improvviso.
«Anche un bel livido sulla faccia.» Impallidii. Se fossi tornata a casa con un livido mia madre mi avrebbe tirato dietro una ciabatta dandomi il resto. «Stai scherzando spero.»                                          
Lui trattenne il fiato. «Ma certo che sto scherzando! Mi deludi se pensi male di me così!» disse ridendo. Lo fissai torva. «Chi può avermi mandato un biglietto simile?»                                                                       «Non lo so, ma chiunque sia questa persona, penso che non voglia che tu segua il "caso delle bambine" se così vogliamo chiamarlo. Dovresti stare alla larga da queste cose Matilde, per il tuo bene» la sua voce si fece dura, così fredda che potevo sentirne la consistenza nell'aria davanti a me, mi fece venire i brividi. «Non posso sempre esserci io a salvarti.» Cosa?! Brutto mascalzone faccia di bronzo che non era altro!
«IO so perfettamente cavarmela da sola. Non osare. Anzi sai che ti dico? Puoi anche andartene. Grazie di tutto. Dimentichiamoci questa faccenda. Saluti e baci, anche a te e famiglia!» esclamai spingendolo via dal divano. Ero stizzita. Un misto di sollievo e delusione si dipinse in contrasto al sorriso sul suo volto «Forse è meglio per entrambi. E sono io che dovrei scusarmi con te... Vedi è complicato... Che casino.» Si passò una mano nei capelli nerissimi. Forse lo faceva quando era nervoso. «Vedi... io vorrei poter dire di più ma non ci riesco, finisco per fare del male a tutti, cavolo Matilde!» Lo fissai allibita. Non sapevo cosa dire. Lui si fece più vicino.
«Ho così paura.» Quella confessione così pura e spontanea mi fece diventare un blocco di ghiaccio. E mi sentii dannatamente idiota. «Di cosa hai paura?» fu l'unica cosa che riuscii a chiedergli.
«Di fidarmi delle persone.»
«Anche io. Ma mi fido di te.» Improvvisamente ero diventata attenta. Da quando mi lasciavo sfuggire dalla bocca cose simili? Con un ragazzo che conoscevo appena, poi. Si sedette accanto a me, puntò gli occhi nei miei, inchiodandomi con lo sguardo. «Davvero?» sembrava sinceramente sorpreso. «Davvero.»                                                                 «Non voglio farti del male...» una smorfia di dolore deformò il suo viso squadrato. Aveva degli zigomi piuttosto marcati. Era normale che avessi voglia di toccarli? Mi sembrò di sentire la voce di nonna Luisa "Picciridda mia, tu si' na sveggognata!" Lui continuò: «Eppure sento che vicino a te posso osare...»                                                                       «Aaron guardami » alzò la testa piano piano «chi ti ha ridotto così? » gli presi la mano, e il contatto fu intenso, un'onda che si propagava a velocità supersonica dai capelli alla punta dei piedi. Sentii tanto dolore. «Perché? Chi è stato?» Aaron sussultò puntandomi il dito contro: «Tu sei lei. Tu sei quella ragazza, la lettrice di anime.» E si ritirò con fare spaventato.
Lo guardai come se stesse delirando: «Io sono cosa?»
«La lettrice di anime» lo disse ancora. Quelle strane parole mi rimbombarono nel cervello come lo scoppio di un ordigno nucleare. Mi afferrò il mento per guardarmi meglio gli occhi. «Fallo ancora.» Non capivo. «Fare cosa?»                                                                          «Toccami. Tocca una parte qualsiasi di me» posai una mano sul suo petto, esattamente in mezzo. Ancora quell'onda: immagini mi si paravano davanti confuse, ero presa da una frenesia, da una sete di informazioni che nemmeno sapevo da dove provenisse, sentivo calore ovunque, sentivo le mie pupille dilatarsi per vedere qualcosa che è al di fuori dell'ottica umana. E vidi il suo cuore che batteva, era ferito, pompava a ritmo ansante, suono di una danza senza ballerini, un rumore vuoto e pieno di tristezza, di solitudine. Suono di occhi spaventati, di lacrime, di urla laceranti che squarciavano i cuori di tutti gli altri. E poi all'improvviso il freddo. Tutto svanito. Tornai alla realtà troppo velocemente e mi accorsi di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo. Aaron era allibito e affranto. «Sei tu. Sei proprio tu» aveva staccato la mia mano dal suo petto, e me l'aveva poggiata in grembo. Sembrava non volesse mai più toccarmi. Sembrava mi odiasse. Era in piedi, davanti alla porta. Sorrise, poi la sua ilarità si spense all'improvviso, e uscì senza aggiungere altro.
Una lettrice di anime.

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