Avevo un forte dolore alla testa, alle braccia, alle gambe, alle costole. Tutto mi faceva male a dir la verità. Aprii gli occhi piano, e la luce li sferzò senza pietà. Appena vidi dove mi trovavo non mi ci volle molto per ricordare cosa era successo. Ero a casa di Aaron, sul suo divano per la precisione; mi sentivo strana, triste, arrabbiata. Ancora una volta lasciai che i ricordi mi violassero e trovai la risposta al mio stato d'animo. Le parole che Aaron mi aveva rivolto quando ero quasi svenuta di nuovo nel suo corridoio nel tentativo di andarmene, mi bruciavano ancora. Era arrabbiato con me nonostante l'avessi strappato dalle mani di quei bulli e questo mi faceva sentire inutile, non sopportavo di stare così. L'immagine del suo petto pieno di cicatrici colpì al centro del mio essere come un ferro incandescente, non potevo resistere un minuto di più in quella casa.
Vidi il mio zaino abbandonato accanto al divano, lo presi velocemente e strappai un pezzo di pagina del mio quaderno e cercai una penna nel mio astuccio. "Grazie." Fu l'unica cosa che gli scrissi prima di sbattere la porta e tornare a casa mia.
Avevo voglia di correre.
Di togliermi di dosso tutto quel fango e di correre ancora.
Avevo voglia di piangere e di ridere. Di girare per le strade come una pazza e saltare di gioia e nel mentre urlare al mondo la mia tristezza, il mio dolore.
Potevo accontentare poche delle cose che mi andavano in quel momento.
Lasciai lo zaino al cancello di casa mia e camminai fino in fondo al viale assaporandomi ogni passo. Mi fermai. Cominciai a correre, il vento mi accarezzava il viso con insistenza quasi a pregarmi di andare un po' più piano, perché stavo superando la velocità a cui va di solito il mondo. Eppure io non potevo rallentare, dovevo scaricare sull'asfalto ogni cosa, dovevo trasferire alla terra le mie emozioni e ricevere in cambio un po' di tranquillità. Feci avanti e indietro sette volte, alla sesta già un velo di sudore cominciava a imperlarmi la fronte, così, stanca ma non accaldata grazie alla frescura di dicembre entrai in casa e mi feci la doccia. Fu una doccia piacevole, incomparabile alle altre docce che facevo ogni giorno. Non era una doccia di fretta, o una di dovere perché poi c'era scuola.
Non era la doccia curativa dei sabato sera tristi passati a casa a guardare film da sola sul divano. No. Era la doccia bollente, che bruciava e straziava la pelle tanto da farla sembrare uno scroscio di acqua gelata. E mi piaceva, mi aveva calmato i nervi insieme a quella corsa folle.
Presi una grande decisione: per almeno una settimana avrei evitato Aaron e avrei condotto una vita normale. Priva di voci, di fantasmi, di poteri sovrannaturali, e di svenimenti. Volevo godermi la settimana prima del mio compleanno.
E ci riuscii quasi in tutto. Ultimamente con la scuola ero rimasta un po' indietro, così approfittai della situazione per rimettermi in pari con ogni materia. Già si sentiva nell'aria l'odore delle vacanze di Natale che pregustavo con impaziente attesa. Non vedevo l'ora che arrivassero per stare un po' più tranquilla, magari mio padre avrebbe avuto il buonsenso di chiamare mia madre per farci gli auguri e lei sarebbe stata meglio. O forse Babbo Natale ci avrebbe portato regali un po' migliori, come la tranquillità e l'equilibrio. Magari quel periodo sarebbe potuto servire per riprendere il legame con mia madre che si era allentato ultimamente.
Volevo solo avere una vita da normale sedicenne, quasi diciassettenne per essere precisi.
E fu così.
I giorni scorrevano tutti uguali salvo qualche incontro con gli occhi di Aaron fuori da scuola. Sembrava arrabbiato, molto arrabbiato: non sapevo se più con me o con se stesso per qualche ragione che non conoscevo, o forse ce l'aveva col mondo in generale.
Così era il lunedì.
E poi il martedì.
Il mercoledì.
Il giovedì.
Il venerdì.
Il sabato.
La domenica.
Il lunedì successivo.
Il martedì.
Il mercoledì mia madre tornò a casa ubriaca.
Il giovedì svenni in classe.
Il venerdì sapevo che le cose stavano tornando come prima, non c'era modo di scappare dal presente, e sapevo anche che il giorno dopo, ovvero il giorno del mio compleanno, si sarebbe incrinato qualcosa nel mio mondo. Qualcosa che ormai non controllavo più.Mi svegliai stravolta. Controllai l'ora: 00:04. Dio, mezzanotte e quattro. Avevo fatto un sogno strano, in cui un ragazzino dagli occhi grandi e chiari mi parlava e piangeva, ma io non riuscivo a sentirlo. Mi sforzavo, provavo a fargli capire che non mi arrivavano le sue parole eppure lui continuava a parlare, non si fermava, aveva bisogno di comunicare, glielo leggevo dentro, ma non sapevo come. Fin quando non avevo avuto l'idea di toccarlo. "Ti prego, non andartene. Smetti di evitarmi, ho bisogno di te."
Cercai di rimanere aggrappata il più possibile a quelle parole ma ero come trascinata da una forza verso il mondo reale che sembrava determinato a farmi aprire gli occhi. E infatti fu così. Almeno lui non aveva fallito nel suo intento, pensai mentre scendevo dal letto per andare a sciacquarmi il viso. 00:13 Tornai a letto. Poi qualcosa mi disse che non era lì che dovevo essere. Il materasso si fece scomodo, duro, era diventato... Un armadio.
Ero in alto, su un armadio, in una camera da letto; riconobbi il respiro cadenzato di chi dorme profondamente e in un attimo balzai giù dalla mia postazione, come se niente fosse. Mi sentivo attratta da quel respiro così regolare e costante. Un passo, due, tre... Mi avvicinai con fare felino al letto finché sentii che qualcosa stava cambiando. Ah si, il ritmo dei soffi era cambiato, adesso era irregolare, ora corto, ora lungo, spaventato, un fiatone trattenuto. Una voce emise un suono gutturale: «No! No... Ti prego...» Mi bloccai in ascolto «Matilde... Matilde. No. Scappare... No. Perché quelle lacrime? Fermati... Non correre. Matilde non puoi andare via. No!» Avrei voluto toccare i capelli neri madidi di sudore, ma mi sentii risucchiare in un vortice di altre voci, di altri luoghi che non potevo vedere, e solo alla fine di un tour che mi sembrò immenso, sentii la stoffa che stringevo convulsamente. Ero avvinghiata alla mia coperta, con la testa sul mio cuscino. Non mi ero mai mossa. Guardai l'ora 6:30. La mia sveglia cominciò a suonare. Un sogno. Era un sogno. Un sogno... Aaron! Quella persona che dormiva era Aaron! In qualche modo i nostri sogni dovevano essere collegati... Perché doveva essere sempre tutto così difficile? Ero stremata.
Avevo il viso pallido, le occhiaie, le labbra secche e screpolate, gli occhi lucidi... Di febbre. Forse avevo la febbre e durante la notte ero stata in preda al delirio.
«Mammaa...» la mia voce era roca, come fossi stata nel deserto senza bere per un giorno intero.
«Matilde? Che succede? »
«Mamma non penso di sentirmi molto bene» non feci in tempo ad aggiungere qualcosa che mi sentii priva di forze.
Mia madre si avvicinò al letto preoccupata. «Matilde... Le tue pupille sono così... Grandi. E i tuoi occhi così... Penso di avere io le allucinazioni adesso.» Mi fissò in silenzio con sguardo dubbioso. «Ti sei drogata?»
«Cosa? Che dici mamma? Che hanno i miei occhi?»
« Sono verdi... Come... Come quelli di tua nonna quando... Oh mio Dio...»
Perse l'equilibrio e fu costretta a sedersi.
«Magari, è il caso che parliamo seriamente noi due, non pensi?» le intimai.
«Hai ragione...» alzò la testa di scatto «Per Lilith! Ma oggi è il tuo compleanno bambina mia! 16 anni! Wow! Sei una donna.»
«Mamma. Ne faccio 17. »
Impallidì.
«Oh cavolo, scusami! Beh si spiegano i tuoi occhi allora...»
«Mamma io sono contenta che tu abbia una spiegazione, ma se non ti dispiace vorrei essere informata anche io. Penso di stare per impazzire!»
«Va bene, va bene. Calma. Vediamo... Suppongo io debba cominciare dall'inizio.» E quando diceva così, significava che era davvero lunga. Mi misi in posizione di ascolto. Lei si sedette sul letto vicino a me, poi incominciò: «Vedi, c'è una tradizione nella nostra famiglia. Il nostro cognome italiano è Severi, ma il nostro vero cognome è Nachtregen, viene dal tedesco ed è formato da due parole: pioggia (Regen) di notte (Nacht).
Secondo la leggenda fu in una notte di pioggia che fu concepito il primo Lettore di anime. «Il primo lettore di anime era un lui?»
Ero stupefatta.
«Sì tesoro, era un lui. Suo padre era umano, ma sua madre era la regina fra tutti i demoni. Colei a cui attribuiamo il nome di Lilith. Quella notte si racconta che il bambino ricevette fattezze umane grazie al seme del padre e poteri di demone da parte di madre. Egli era apparentemente "umano" ma aveva una cosa che lo caratterizzava: nel suo caso, erano i capelli color dell'argento. Altri lettori però sono stati caratterizzati dagli occhi particolarmente chiari.
Lo chiamarono Artemius. Ogni lettore di anime aveva l'obbligo di sposarsi con una lettrice, in modo da far rimanere pura la razza e far si che essa non si estinguesse nel tempo.
Per dare il primo esempio da seguire, Lilith partorì così una figlia femmina, con i capelli color del rame scuro e la leggenda dice che la madre le depositò scaglie d'oro in fondo agli occhi scuri.
Lei fu Elidiam.
I due furono costretti a sposarsi, e tutto andò bene per i duecento anni successivi. Vi erano tanti lettori e lettrici nel mondo, e la razza prosperava nel tempo evolvendosi e rafforzandosi.» Sembrava la trama perfetta per un romanzo, uno di quelli che avrei divorato senza pensarci troppo.
«Ma ovviamente, sarebbe stato troppo facile così... Il duecentesimo anno, un lettore chiamato Ames si innamorò perdutamente di una donna umana. Anche lei lo amava e lui era pronto a tutto, avrebbe fatto ogni cosa in suo potere per trascorrere la vita insieme a lei. I due inchinati al cospetto di Lilith la invocarono per chiederle di far diventare Ames un umano comune. La regina, indignata, maledisse i due amanti e tutti i lettori maschi o femmine si fossero innamorati e avessero consumato il loro amore con una donna o un uomo umano, perché il frutto della loro unione sarebbe stato un demone malvagio e sconosciuto.
Fu questo tipo di demone che nacque pochi mesi dopo dal ventre dell'amante di Ames.
Si dice che alcuni sono qui fra noi. Nessuno lo sa. Questa non è una leggenda conosciuta da molta gente. »
Beh, di certo non era la fiaba della buonanotte che si racconta ai bambini. «Mamma, e i nonni? Cosa c'entrano?» Sul suo viso si schiuse il sorriso più sincero che le vedevo fare da anni.
«Tua nonna era una Lettrice e tuo nonno un Lettore. Facevano parte del Sacro Consiglio di Lilith: una congrega che bada tutt'ora a far rispettare ai Lettori le regole corrette.
Quando nascemmo io e tua zia, i miei già sapevano che doveva essere lei e non io la prescelta, infatti fu così. Finché lei scomparve nell'estate del '96 un anno prima della tua nascita.» Rimasi interdetta. «E tu? Perché non sei come me?»
«A quanto pare il gene si trovava anche dentro di me, e a quanto pare anche i genitori di tuo padre lo avevano trasmesso a lui che però è umano fino al midollo, così quando sei nata tu... Beh qualche sospetto ci era già venuto. »
Restai a bocca aperta a fissare il vuoto per qualche secondo. Avevo bisogno di pensare, di immagazzinare e catalogare ogni parola che era uscita dalle labbra di mia madre.
Lei stette sorprendentemente in silenzio mentre io rimuginavo e mi provavo la temperatura.
Il bip bip del termometro elettronico mi risvegliò dal torpore. 38.9
«Ecco... pure la febbre...» borbottai.
Mia madre vide la temperatura e sobbalzò. Corse a prendermi una pastiglia di non so che, e io la mandai giù senza fare domande. Dopodiché mi rivolse uno dei suoi sguardi: dormi, oggi niente scuola. E mi assopii pensando al fatto che c'erano altri uguali a me. Mentre scivolavo nel sonno, fra le languide braccia di Morfeo, ebbi un pensiero fugace: certo, il giorno del mio diciassettesimo compleanno non era cominciato nel migliore dei modi.
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La figlia dell'Inferno.
FantasíaUn filo che è come la lama di un rasoio a unire i tre regni. Inferno, Terra, Paradiso. Qualcuno ha mai sentito parlare di: lettori di anime? Una ragazza destinata alla gloria o alla dannazione. A voi la scelta, ma vi avverto.. « Lasciate ogni sper...