Capitolo 1.

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Ci trasferimmo in un minuscolo insignificante paesino della provincia di Bergamo, Fiorano.

Mi piaceva quel nome solo perché mi ricordava un fiore.

Pochi abitanti, piccole case affiancate quasi tutte uguali, una chiesina tenuta bene, un bar, poche cose. Ma niente era trascurato, tutti i fiori erano colorati e vivi, i panni erano stesi ordinatamente, l'erba dei giardinetti tagliata, persino i bambini che giocavano nei cortili delle loro case sembravano essere fatti con lo stampino, pronti a prendere un premio nobel come Bambino Migliore dell'anno.

La nostra casa, una casa di fortuna, ci era stata lasciata in eredità da mio nonno Ovidio, che era morto pochi mesi prima, portando via con sè anche nonna Luisa, pochi giorni dopo. Non che fossi estremamente legata a loro, ma erano miei parenti, e gli volevo bene.
Erano i genitori di mio padre... Già. Mio padre.

Chissà dov'era adesso? Forse su una spiaggia ai Caraibi con la sua nuova giovanissima fidanzata, Elena. Si erano conosciuti ad un convegno di medicina, mio padre era medico, e da quel giorno un amore frivolo era scoppiato. Se solo oso pensarci mi viene la nausea. Da quel momento tutto era andato decisamente a rotoli. Io ero ancora più scostante del solito, e mia madre che non aveva la fama di una donna forte, aveva iniziato a manifestare segnali di cedimento che mi avevano preoccupata. L'idea dell'abbandono, dell'essere sostituita con una persona fisicamente più attraente doveva essere un fardello terribile.
Mio padre mi aveva lasciato sola, ci aveva lasciate sole.
Me, e la mamma.
Non lo diceva mai, ma lei era ancora distrutta dalla separazione. Nonostante questo dovevo ammettere che se la stava cavando bene nell'ultimo periodo.
Aveva deciso di ricominciare partendo da se stessa, andando in palestra, facendosi un armadio nuovo e riempiendo lo spazio che mio padre aveva lasciato con altri vestiti e scarpe colorate. Ma forse non bastava. I ricordi intrisi nelle mura della loro stanza la tormentavano. Cambiare casa era l'unica via per lasciarsi indietro il passato. La nostra casa che definirei in decomposizione (letteralmente), si trovava all'ultimo posto di un lungo viale alberato, ormai coperto di foglie data la stagione. L'autunno mi piaceva, mi preparava al freddo dell'inverno, il periodo in cui sono nata, il Natale, i dolci, l'albero, i regali, la neve. Mi piaceva perché mi trovavo più a mio agio nei larghi maglioni caldi, nelle ciabatte foderate, sotto le coperte di pile, piuttosto che in infradito con un costume addosso.

Io ero così. Un po' schiva, riluttante a mettermi in mostra. Forse è più corretto dire che preferivo ogni zona d'ombra, e quando ne adocchiavo una, era lì che preferivo stabilirmi.

Amavo leggere, ascoltare la musica, scrivere e disegnare. Inoltre avevo degli interessi poco comuni per una ragazza di quasi diciassette anni, ero maledettamente affascinata dal macabro, dal mistero, dalle cose che pochi comprendevano per il semplice fatto che io mi sentivo in grado di capire. Certi fatti spesso non so come facessi a conoscerli, li sapevo e basta. Spesso fantasticavo sulla possibilità di essere discendente di una nobile famiglia di sensitivi. Mi sarebbe piaciuto essere una vampira (si sarebbe spiegato il perché delle mie mani sempre gelide) o un lupo mannaro. Qualcosa di eccitante, che mi sottraesse dalla morbosa banalità della mia vita.
Dicevo, la casa era ormai a pezzi, ci sarebbe stato da lavorare per rimetterla in sesto, nessuno ci abitava da anni, poiché i nonni si erano trasferiti da noi da tempo immemore. Nel frattempo, avremmo alloggiato in un hotel fuori paese, nell'attesa di poter vivere in un luogo decente.

Entrammo, con l'aiuto di un paio di chiavi arrugginite, e lo spettacolo mi fece venire la pelle d'oca. Ragnatele ovunque, cose non identificate ammassate in ogni dove, polvere, ossa, uccelli e topi morti, piccoli murales, resti di un giaciglio fatto magari da qualche senza tetto che aveva pensato a questa vecchia baracca come un rifugio. Bottiglie di vetro, cocci, foto bruciacchiate, e un buio spettrale completavano l'opera. A quanto pareva, doveva essere stata per lungo tempo una specie di punto ritrovo per gente poco raccomandabile.
Ci sarebbe stato da lavorare molto, davvero molto. Per fortuna avevamo deciso preventivamente di farla ristrutturare; peccato che i lavori erano appena cominciati. Feci un sorriso smorzato pensando ai poveri operai.
«Allora, ti piace?» il tono della mamma ammetteva poche repliche. In fondo che scelta avevamo? Tornare indietro? Fuori discussione.
Non mi piaceva. Assolutamente no. Sentivo che c'era qualcosa di sbagliato in quella casa, qualcosa che l'aveva segnata irrimediabilmente. Forse un segreto che i nonni si erano portati con loro nella tomba?  Spesso amavo creare scenari improbabili. Matilde, la ragazza con la testa fra le nuvole. Sbuffai, persino il mio nome non aveva niente di speciale in fondo.
Ero talmente persa nei miei pensieri che inizialmente non mi accorsi di aver mosso le gambe insieme alle parole che frullavano nella mia testa, ancora calde di curiosità. Mi trovavo adesso, al primo piano, in una camera da letto, mancante di quest'ultimo per l'appunto.
« Matilde... » Una voce, ma non era mia madre. Aveva un tono spettrale. Un brivido mi attraversò la pelle della schiena.
« C-chi è? Cosa vuoi? »
« Shh.. Lei può sentirci. Sì, lei può sentirci, ha il dono. Oh sì esatto, quel dono. » La voce che adesso si era fatta più di una, parlava di me.
« Cosa volete? Dono? Se qualcuno mi facesse la cortesia di spiegarmi! Non per far polemica ma credo di essere ancora sana di mente... O almeno lo spero» mormorai. « Oh accidenti! E date le circostanze, sto anche parlando da sola, in seguito ad aver pensato di aver sentito voci di... Non so nemmeno cosa siete, che cavolo. »
Silenzio.
« Parlate, avanti. Chi siete? » il mio tono appariva spavaldo, ma la mia pelle cominciava a coprirsi di piccole gocce di sudore freddo.
« Chi siamo, chiede » dissero ridendo.
Sul serio? Mi stavano prendendo in giro. Mi passai le dita fra i capelli cercando di tenere a freno l'istinto di urlare.
« Ma siamo noi Matilde, non ricordi? I tuoi amici, giocavamo insieme quando eri piccola. Forse non ricordi...» la voce si fece pensierosa « forse non ricordi, eri troppo piccola.»
« Per questo motivo sapete il mio nome? » adesso sì che cominciavo ad essere confusa.
Il bisbiglio si spazientì: «Ma sì, te l'abbiamo appena detto! Giocavi con noi. E hai ancora il dono... Strabiliante. Di solito si perde con l'età. E dimmi, cara, come sta tuo nonno Ovidio? Nonna Luisa? » Cos'è, volevano anche il mio codice fiscale adesso? Il fatto che conoscessero il nome dei nonni era inquietante. Mi costrinsi a cercare di capirci di più.
« Come li conoscete? E comunque sono morti. Pochi mesi fa... » Mi scivolò una lacrima scottante sul viso. Principalmente ero legata a mio nonno, mi mancavano un po' i suoi racconti la sera quando mamma non era in casa, e noi potevamo parlare di fantasmi, soprannaturale e libri. La mamma non ne parlava mai. E se qualcuno faceva riferimenti al riguardo chiudeva la conversazione con il solito: «Non sono argomenti adatti per una ragazzina. »
« Oh povera piccolina... Col tempo capirai. » A sedici anni ero ancora piccolina? Che irritazione.
« Cosa? Cosa devo capire? Chi siete? Cosa fate qui? Cosa volete da me? Rispondetemi! »in quel momento ero io ad essermi alterata, improvvisamente avida di conoscenza.
Dato che non ricevevo alcuna risposta alla mia miriade di domande affamate, continuai a parlottare fra me e me, forse anche con i muri. Ci sarebbe mancato che mia madre entrasse nella camera e mi sentisse parlare da sola, così mi avrebbe definitivamente preso per pazza; avrebbe colto l'occasione per portarmi da uno strizzacervelli. Domandai l'attenzione delle voci ancora una volta con tono meno elevato ma le entità erano sparite come erano apparse, senza un rumore, lasciandomi addosso lo sfrigolare dei dubbi.

La figlia dell'Inferno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora