Capitolo 10.

898 54 3
                                    

Aaron

Giacevo a terra, le lacrime scorrevano sul mio viso e non c'era verso di fermarle. Un fluire di emozioni che non controllavo più, avevo paura. Di solito non ero molto incline a mostrare i miei sentimenti, ma non si trattava di quel caso. Ciò che mi succedeva ogni volta non era biasimabile. Mi alzai, corsi a nascondermi, ma non bastava. Aprì la porta e la sua voce suadente che sapeva stanare chiunque dal proprio nascondiglio cominciò a canticchiare il mio nome. «Aaaroon...»
No. Non dovevo arrendermi, non di nuovo, non potevo lasciare che vincesse ancora. Sentii che tirava fuori qualcosa dalla tasca destra, come sempre. Ed ecco che uscivo fuori dalla mia tana, sotto il letto non ero più al sicuro, una forza che mi portava via come una barca che affondando trascinava anche il marinaio e con sè tutta la ciurma. Mi trovavo alla deriva, i suoi occhi nei miei, di quel giallo intenso che mi spaventava ogni volta che ripeteva quel rituale: io ero la cavia. «Lo sai perché lo faccio Aaron, non è così? Lo sai che io non ti farei mai del male, ma a volte nella vita bisogna sacrificarsi per ottenere ciò che si vuole!» Mi scappò un rantolo di dolore per quella morsa che mi teneva sollevato a mezzo metro da terra, una morsa invisibile agli occhi della gente. «No, non urlare, devi tenere la bocca chiusa, altrimenti mi toccherà prendere ago e filo e far sì che tu non guasti tutto, tu non vuoi che io ti cucia le labbra non è così? No, non lo vuoi. Quindi fa il bravo.» Dal basso dei miei dieci anni annuii con le poche forze che mi erano rimaste e mi abbandonai all'unica cosa che mi ricordava di essere ancora vivo: il dolore. Ogni volta era peggio ma sapevo di non avere ne la forza ne il potere di evitare quella situazione orrenda. La paura non è qualcosa di facile da controllare e io lo sapevo fin troppo bene, mi ritrovavo da solo a combattere, combattevo da tutta la mia breve vita per la semplice colpa di essere venuto al mondo.

Mezzanotte, la prima frustata.
Mezzanotte e un minuto, la seconda.
Mezzanotte e due minuti, la terza.
Mezzanotte e tre minuti, la sua mano poteva attraversare il mio corpo, lesionare i miei organi, uccidermi dall'interno. Ma si fermava prima, solleticandomi il cuore con le nocche.
Mezzanotte e quattro minuti, urlai: «Basta!» e mi svegliai. Giacevo in un bagno di sudore, in un mare di brividi che mi pungevano lievi la pelle; appoggiai i piedi al pavimento e mi diressi in bagno, mi spogliai: le cicatrici più rosse che mai bruciavano come le fiamme dell'inferno e come ogni notte era d'uso, ne scovai un'altra che andava formandosi senza pietà, squarciando il mio braccio sinistro. Erano la mia maledizione.
Ogni notte morivo per resuscitare al mattino, quattro minuti dopo l'inizio del nuovo giorno, per sempre. Il mio corpo era mortale e fragile, e a volte mi sentivo come se stessi indossando la pelle di un dannato estraneo. Ero arrabbiato.
Desideravo più di ogni altra cosa rivelare il mio segreto a qualcuno, e con Matilde che continuava a tempestarmi di domande mi sembrava facile. Avrei potuto provare. Me lo promettevo ogni notte davanti allo specchio e non ci riuscivo mai. D'altronde lo sapevo, sarebbe scappata via non appena le avessi rivelato cosa effettivamente mi era accaduto e chi commetteva quei crimini orrendi, era tutto così maledettamente complicato che certe volte stentavo io stesso a credere che corrispondesse alla realtà dei fatti. Sicuramente, avrebbe finito per odiarmi. Da qualche parte, su qualche libro stava scritto che io e lei non fossimo destinati ad essere uniti.
Ma forse lei era diversa, forse c'era qualcosa che poteva essere cambiato... Non lo sapevo. Come potevo esserne davvero sicuro? Ogni volta che la incontravo mi sentivo al mio posto, e questo in un certo senso mi faceva paura e mi rendeva felice e appagato al tempo stesso, ero confuso. Riportavo alla mente il colore dei suoi occhi, che era straordinariamente mutato quando aveva poggiato la mano sul mio petto. Aveva preso la mia anima, l'aveva sfogliata come un libro e avida aveva bevuto il mio sapere, il mio dolore, le mie paure, aveva sentito ciò che provavo ogni notte ma non era fuggita. E mi ricordavo il colore naturale, quel color nocciola delle sue iridi trasformarsi in verde chiaro e via via che mi leggeva dentro il colore farsi più intenso, mi attraeva come una calamita e avevo dovuto fermarla. Chissà cosa sarebbe accaduto se non l'avessi fatto. Nessuno mi aveva avvertito che sarebbe stato così. Tanto intenso. Tanto straordinario. Portavo con me il suo stupore, la sua comprensione riguardo a ciò che aveva visto, e le lacrime che le affioravano quando con voce tremante mi aveva chiesto di stringerla forte. Matilde era una spiaggia sulla quale fermarsi e riposare, ma non sapevo se davvero avevo voglia di fermarmi. Non sapevo nemmeno se mi fosse consentito. C'erano tante cose che sapevo di lei e che non capivo, soprattutto non riuscivo a comprendere quel suo lato bizzarro, quella parte del suo cervello che senza la minima esitazione si lanciava a rotta di collo dentro il caos più totale dell'animo delle persone senza abbassare mai la testa: potevi essere il peggior criminale, aver commesso i peggiori omicidi e delitti nei confronti dell'umanità, potevi essere strano, lunatico, particolare ma a lei non importava, non si fermava mai allo strato esterno, non era superficiale. Questo le faceva certamente onore, ma dall'altro lato, era così piccola, vulnerabile, una bambina delicata dagli occhi grandi che non voleva altro che capire e aiutare chi ne aveva bisogno. Una con la sindrome da crocerossina? Ero convinto che però se si fosse trattato di aiutare lei stessa non sarebbe stato lo stesso. Maledii mentalmente il compito che mi era stato affidato.
Matilde non aveva paura delle cose brutte e oscure, non aveva paura del buio e dei mostri sotto al letto, ma aveva un terrore cieco e profondo per quanto riguardava le cose belle, quelle che splendevano. Sembrava un uccellino senza ali, con la paura di volare. Da un lato non potevo biasimarla, chi spiccherebbe il volo senza ali? Eppure dall'altro mi rendevo conto che lei in effetti volava, ma non nella direzione che ci si aspetterebbe dagli altri. C'è chi vola verso la salvezza e chi verso l'oblio; noi facevamo parte senza dubbio del secondo gruppo di persone.
Volevo che lei sapesse tutto di me, e al tempo stesso non volevo farle del male. Come mettere in connubio due cose così opposte? In poesia lo chiamano ossimoro. Forse eravamo questo, io e lei: l'uno l'antitesi dell'altra, una l'ossimoro per l'altro.

La figlia dell'Inferno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora