Capitolo 2.

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Con l'autunno arrivava anche la scuola, e io non avevo proprio voglia di alzarmi dal letto. Terzo anno di liceo. Non conoscevo nessuno. Nessuno mi conosceva. Potevo ricominciare... Forse.
Mi infilai nella doccia alla velocità della luce, presi un paio di pantaloni e una felpa a casaccio, allacciai le scarpe da ginnastica blu, misi il giacchetto, un cappellino, e mi infilai in quella mattina già buia, che mi lasciava presagire un incombente disastro. Prima di uscire mi soffermai un momento davanti allo specchio, pregando di aver coperto le occhiaie messe in risalto dai miei occhi scuri. Sperai con tutto il cuore che le spiegazioni di mamma per arrivare a destinazione fossero sufficienti. Perdermi era una mia specialità.
Sguardi assenti, braccia intorno alla vita, lunghi baci, saluti fugaci, occhiatacce: era più o meno questa l'aria che tirava davanti al portone della scuola che brulicava di adolescenti in piena crisi ormonale.
Le mie cuffie irrimediabilmente nere, battevano solidali una canzone metal per svegliarmi, e io andavo a ritmo di quel cuore pulsante, che per magia o per naturalezza trascinava i miei passi avanti. La mia classe era la 3A, fissai il cartellone con una sfilza di nomi a me sconosciuti, che dopo le prime cinque ore di inferno sarebbero stati riconducibili a dei volti umani.
Ero ansiosa. Troppo. Mi mordevo le unghie, giocavo coi capelli, sembravo una bambina che ancora con i codini e le trecce aveva paura di lasciar andare la mano calda della mamma. Nessuno sembrava fare caso a me. Il segnale, nonché la campanella, intimava noi, povera carne da macello, ad entrare al mattatoio. Cercai la mia classe. Dopo giri intorno a vuoto per dieci minuti, con l'amara consapevolezza di essere in ritardo mi precipitai ansimante da un bidello, che mi indicò la strada. Trafelata e scoraggiata varcai la soglia sussurrando un: « Buongiorno... Scusi il ritardo, non riuscivo a trovare la classe.» La professoressa per forrtuna non sembrò infastidita dalla mia patetica entrata: « Tu devi essere Matilde giusto? Benvenuta. » Mi squadrò da capo a piedi senza giudizio, forse solo pensando che aveva una ragazza in più da poter torturare durante l'interrogazione. « Ragazzi lei è una nuova alunna, si è trasferita qui da poco, cercate di mostrare un po' di educazione. » Ovviamente, una biondina sfacciata, che poi scoprii chiamarsi Sara, scoppiò a ridere fissando il mio look trasandato e le mie guance rosse per l'imbarazzo.
« Sara! Non cambierai mai! » le urlò qualcuno per farla stare un po' zitta.
Mi sedetti all'ultimo banco, da sola. Le ore passarono lente, una dopo l'altra, presentazione dopo presentazione ai nuovi professori che mi si paravano davanti. La quarta ora finì con una brillante introduzione di equazioni fratte, nella quale avevo capito si e no che avevano qualcosa a che fare con dei numeri.
Mi avviai verso casa, con passo più sicuro rispetto alla mattina, con le cuffie nelle orecchie, la musica sparata ad alto volume, le gambe stanche quanto la mente. Fu così che lo notai.
Non so se per la mia stessa stanchezza nello sguardo, se per quegli occhi incredibilmente chiari, o per il fatto che anche lui, come me, era solo.
Ci scambiammo un'occhiata fugace, e lui spalancò le iridi e le pupille in tutta la loro limpidezza, come avesse visto una luce di speranza... O un mostro spaventoso. Affrettai il passo, e feci appena in tempo a scorgere con la coda dell'occhio che il ragazzo aveva imboccato la mia stessa via. Abitava due case prima della mia, ancora vecchia e inquietante.
Passai i piedi sullo zerbino verde, nuovo di pacca. Bussai, nessuno rispose. Mia madre doveva essere ancora a lavoro, non ricordavo mai i suoi orari. Infilai la chiave nella serratura, e fra scatti, spintoni e calci, la maledettissima porta decise di lasciarmi entrare.
Mangiai un panino con qualcosa di indefinito dentro, e con lo zaino in spalla mi ritirai nel mio rifugio segreto, la mia stanza. Era l'unico posto che sembrava isolato dal resto, isolato dalla casa, dalle voci. Già... Le voci. Quei maledettissimi bisbigli che mi invadevano il cervello, con le loro sciocche pretese di farmi scoprire una verità che io non ero nemmeno sicura di voler sapere.
La mia camera da letto d'altronde era l'unico luogo nel quale avevo avuto potere decisionale; innanzitutto io avevo scelto la tappezzeria, i mobili, il colore delle lenzuola e mia madre per una volta si era limitata a stare in silenzio ascoltando il mio progetto organizzato minuziosamente da parecchio tempo. Una volta terminato l'assemblaggio assomigliava molto alla stanza della vecchia abitazione della quale avevo ancora nostalgia. I colori tenui mi tranquillizzavano, e avevo persino convinto la mamma a comprare un delizioso deodorante per ambienti alla lavanda, non senza una dura lotta verbale.
Mi chiedevo spesso perchè doveva sempre essere tutto così complicato nel mondo. Fra un tormento e l'altro, fra un sussurro e una parola che arrivava come un lampo a ciel sereno, la mia vita scorreva inquieta trascinandosi per le strade senza vedere dove conducevano. Essere me a volte era come fare un salto nel buio.

Din, don. Qualcuno suonò alla porta...

La figlia dell'Inferno.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora