𝑳𝒂 𝒕𝒆𝒏𝒖𝒕𝒂

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Il rimembro mi fece solo perdere tempo, s'insinuò nei meandri della mia astuta mente, che in quel momento tanto astuta non si rivelò.

Lo scalpitare degli zoccoli si fece più attutito, e smisi di pensare, ritrovandomi davanti agli occhi la facciata imponente della tenuta: dall'entrata sfarzosa, raggiungibile tramite un sentiero ciottoloso costeggiato da festuche ben curate, si apriva una media aiuola in un angolo del giardino, adornata da rose e margherite che traboccavano dal bordo del marmo bardiglio.

Impensabile scavalcare la balaustra e arrampicarmi sull'edera che si inerpicava fino al cornicione del primo tetto: da quella parte avrei dovuto scavalcare anche il secondo, e mi sarei ritrovata dritta di fronte alle grandi finestre.

Da lì si potevano scorgere alcune delle stanze interne, come il grande salone da ricevimento, le cui pareti erano ornate di ghirigori, e la biblioteca, tappezzata fino all'orlo da quadri raffiguranti i nostri antenati.

Un balcone si ergeva al centro della facciata.

Sarei stata vista.

Una parte del perimetro delle pareti esterne spiccava nel suo colore bianco; in basso, invece, era stata fatta crescere una siepe di un verde felce.

Prima di finire nei guai, mi affrettai a raggiungere il vialetto che portava sul retro.

Corsi verso gli alberi di rovere che mio padre si era ostinato a non far abbattere: diceva che fungevano da fortezza per quella casa.

Mi addentrai e la raggirai, ritrovandomi sulla fiancata. Superai la siepe e, acquattandomi, setacciai guardinga i dintorni, sperando di non imbattermi in qualcuno della servitù o in qualche ufficiale recatosi lì per affari.

Perché altrimenti, l'avrebbe potuto avvertire.

Il cortile possedeva anche una fontana al centro, circondata da tre panche in granito, la cui acqua scorreva limpida come le nuvole; lo sgorgare si sentiva nitido e continuo.

Dall'altra parte, invece, si profilavano gli edifici della servitù e la scuderia.

Proseguii lungo il sentiero finché la siepe non terminò e, a quel punto, mi arrampicai su un cumulo di legna sistemato sotto il muro.

Mi maledissi per aver deciso di infilarmi prima quel vestito, ricordando all'improvviso quando correvamo per il giardino io e Charles Hornigold, anche lui uno dei tanti figli trascinati via dall'Inghilterra a causa degli incarichi che il governo aveva assegnato a suo padre.

Nei lunghi pomeriggi estivi, il signor Hornigold portava con sé il piccolo Charles e lo lasciava giocare con me. Ci ritrovavamo arrampicati sui grandi alberi di melograno, oppure andavamo a osservare i cavalli fuori dal recinto.

Eravamo innamorati di quegli impavidi animali, dal manto liscio e maestoso quanto la loro stazza. Furono tempi spensierati.

Attenta a ogni movimento, mi arrampicai fino al cornicione. Raggiunta la finestra, mi diedi una spinta col busto e allungai un piede sul davanzale, imbattendomi in mio padre intento a scostare vari libri nella biblioteca del primo piano.

Mi bloccai.

Lì non si udivano i cicalecci degli ospiti, era una di quelle stanze poco frequentate. Di solito, sia io che lui ci recavamo lì per leggere in santa pace.

Sollevai un braccio e posai le dita sull'altro davanzale, quello che conduceva alla mia camera, ma i suoi movimenti — si era appena allontanato di qualche passo stringendo un libro spesso in mano — mi costrinsero a restare immobile.

Quanta dedizione per un libro! E io che impiegavo tre ore solo per riprendermi dalla servitù che mi piombava in camera ogni due.

Rimasi col braccio alzato, in attesa, finché portò la mano libera al taschino della giacca ed estrasse l'orologio per controllare l'ora.

𝐼 𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 - 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑙𝑎 𝑏𝑖𝑎𝑛𝑐𝑎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora