Il simposio

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Ero ancora vivo. Dopo trentasei ore con quel mostro, io, Chuck Rodgers, ero ancora vivo.
Dopo aver passato l'intera giornata e anche la nottata in ospedale, grazie alle intimazioni (per usare un eufemismo) di Striker, il medico che mi curò mi diede il via libera e mi dimise.
Non ero affatto guarito; la spalla mi faceva un male del diavolo e, grazie alla mia stupida decisione di raddoppiarne il dosaggio, gli antidolorifici mi avevano reso difficoltosa ogni capacità motoria e cognitiva.
Ragion per cui fu Revell a guidare fino alla nostra fatiscente dimora.
Mai, e dico mai, nella mia carriera avevo visto qualcuno riuscire a infrangere ogni legge del codice stradale alla velocità e alla potenza di come riusciva a fare lei. Annotai dunque, una volta finita questa odissea e prima di cambiare nome e iniziare una nuova vita sulla prima isola tropicale del Pacifico, che avrei dovuto far internare il depravato che aveva avuto il coraggio e la sconsideratezza di darle la patente. Quest'ultima considerazione però, senza nemmeno accorgermene, la elaborai ad alta voce.

La sua risposta fu un divertito e sprezzante: "Quale patente?"

Come vi avevo già comunicato in precedenza, non ero mai stato un tipo religioso. Ma anche quella volta pregai; per un incidente che avesse messo fine a tutte le mie sofferenze.

                                                               ...

Dopo la corsa verso il rifugio, Chuck era più bianco di un cadavere e, appena scesi dall'auto, lo sentii benedire la terra sotto i suoi piedi. Doveva aver esagerato con gli antidolorifici; non riuscii a trovare altra spiegazione.
Ad ogni modo non riuscimmo a riposarci troppo, perché Striker ci convocò al Dipartimento della Difesa.
Tentai di scappare, ma il mio improvvisato compare, per intimarmi di non pensarci nemmeno, sparò due colpi al soffitto, mi puntò l'arma addosso e poi mi incenerì con lo sguardo.
Forse quella faccenda del proiettile alla spalla se l'era legata al dito. Inoltre, nonostante la fasciatura e il colorito ancora cereo, insistette per guidare. Presunsi che non si fidasse ancora di me, o che fosse un tipo orgoglioso, o che avesse avuto qualche problema con il mio modo di guidare.
Tornare alla vita reale mi inquietava parecchio; immaginavo che, una volta arrivati a destinazione, avrei trovato un intero plotone d'esecuzione pronto ad eliminarmi.

"Rilassati, non ti succederà niente." Chuck sembrò leggermi nel pensiero.

"Lo diceva anche mia madre, prima di tirarmi addosso le sue ciabatte." Dovetti spezzare una lancia a favore della mia genitrice, perché era stato grazie a lei se, col passare degli anni, avevo affinato le mie tecniche da ninja.

"Fino a quando non avremo firmato l'accordo proposto dal procuratore, avremo tutti l'immunità. Quindi, al momento, nessuno ti arresterà."

Giusto, il procuratore. Quello sarebbe stato un enorme problema oppure una manna dal cielo. Dipendeva tutto dall'esito della mia impresa del giorno prima, ma a questo ci arriveremo più tardi.
Fui lieta di constatare che Chuck non mentiva. Infatti, una volta messo piede all'interno del Dipartimento, non vidi nessun agente in divisa tentare di placcarmi sul pavimento per rimettermi quelle dannate manette.
In compenso, avvicinandoci alla sala pausa, dove si trovavano gli altri nostri compagni di avventure, potemmo udire il nostro Generale urlare qualsiasi tipo di imprecazione e parlare di fare il culo a qualcuno.
Sogghignai. Povero scemo, non aveva idea di cosa lo aspettasse.
Entrammo nel locale, e dissi agli altri: "Caspita! Chi è il povero disgraziato che ha fatto incazzare Striker? Non lo invidio per niente!" E mi scappò una risata. Sì, ridevo perché per una volta non ero io ad essere l'oggetto della sua ira funesta.
Ci fu un momento di silenzio, in cui tutti gli occhi erano puntati su di me, prima che sentissi: "Revell Davis, nel mio ufficio! Subito!"

Oh, cazzo. Ero io la povera scema.
Ma certo, l'incidente con Chuck non era ancora caduto in prescrizione.
Mi avviai verso l'uscita per andare incontro alla sfuriata del secolo, e notai Chuck che se la sghignazzava sotto i baffi. Ovviamente ce l'aveva ancora con me.
Arrivai, terrorizzata, nell'ufficio di Striker. Il quale mi fece un cazziatone che non potrei nemmeno riassumervi, perché non esiste un modo per sintetizzare quella lavata di testa senza scadere nella volgarità più assoluta. Avete presente quando, all'asilo, la maestra vi sgrida perché avete lanciato una sedia addosso al bulletto della classe? Ecco, moltiplicatelo per mille.
Non sudavo così freddo da quando aveva scoperto che ero stata io a scrivere sulla lavagnetta con il pennarello indelebile, ma forse ve lo avevo già accennato.
Una volta che la calma sembrò ristabilirsi, raccolsi tutto il mio coraggio, e gli feci quella domanda che, effettivamente, mi stava tormentando da non poco tempo: "Si può sapere perché a nessuno è venuto in mente di informarmi del fatto che Andrew Rodgers era imparentato con il nostro amico federale?"
Quel dettaglio aveva scaturito ancora più dubbi sulle sue intenzioni, sebbene non lo ritenessi un fattore cruciale, dato che se avesse voluto vendicare la sua morte, avrebbe potuto farmi fuori in quel corridoio a Faraday Island.
Ma ero sempre stata restia a fidarmi, quindi tendevo a vagliare tutte le ipotesi.

The enforcer - Sventure di un insolito sicarioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora