Eredità

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Ero sempre stata cosciente del fatto che un giorno o l'altro, volente ma decisamente più nolente, mi sarebbe toccato entrare nel famigerato J. Edgar Hoover Building. Credevo che, quando sarebbe successo, avrei visto intere bacheche tappezzate con le mie foto segnaletiche, e che almeno due dozzine di agenti mi avrebbero avvicinata per interrogarmi o arrestarmi. Quindi rimasi piacevolmente sorpresa quando, messo piede in quel posto, ricevetti solo qualche occhiata incuriosita. Fortunatamente ebbi il buonsenso di indossare dei vestiti normali sotto quella tuta da idraulico/protezione animali.
L'idea di avere a che fare con un intero plotone di federali mi aveva sempre provocato un'ansia e un terrore indicibile, infatti attraversai quello spaventoso corridoio ben nascosta dietro quel muro di sicurezza molto più alto di me chiamato Chuck Rodgers.

"Vado da Reese, il collega che ti avevo menzionato in macchina. Tu tieni occupato tuo padre il più possibile, ti scriverò un messaggio quando avremo finito."

Sbuffai. "Non mi va di parlare con lui, so già che mi innervosirò da morire."

"Lo so, e lo capisco, ma cerca di mantenere la calma, o gli fornirai un ottimo pretesto per non farti uscire da qui."

Rabbrividii al solo pensiero. "Sei un uomo molto persuasivo, Chuck."

"E tu una donna fin troppo impulsiva, ecco perché mi tocca essere persuasivo."

"Oh, ci completiamo", gli dissi, sarcasticamente.

Le nostre strade si divisero, e io mi incamminai con l'entusiasmo di un merluzzo con la sciatica verso l'ufficio del mio genitore. Stavo quasi per bussare alla porta, quando mi chiesi: "Perché diamine dovrei avere tutto questo garbo?", così la spalancai con prepotenza, e la richiusi con altrettanta prepotenza sbattendola alle mie spalle.

"Ciao papà", lo salutai, impassibile.

"Tesoro! Che sorpresa. A cosa devo la tua piacevole visita?" Che schifoso ipocrita.

"Dacci un taglio, la tua sceneggiata del papà amorevole e premuroso non se la beve nessuno."

"Vedo che il tuo temperamento non ha subìto cambiamenti, negli anni."

"Diciamo che io, al contrario di altri, rimango fedele a me stessa."

Fece una risata sommessa da dietro la sua stupida scrivania da direttore. "Questo è il primo di quanti colpi, esattamente?"

Sorrisi, alzando un sopracciglio. "Non li ho contati, mi piace lasciarmi trasportare."

"Hai sempre avuto una grande immaginazione, Revell. È una caratteristica che ho sempre adorato di te."

"Scommetto che questo era il primo colpo di una serie ben numerata e catalogata per potenza e rilevanza, giusto?"

"E sei sempre stata molto, anche troppo, perspicace." Si alzò, poi venne verso di me. "Posso almeno abbracciare mia figlia?"

Lo incenerii con lo sguardo. "Non abbraccio chi mi ha abbandonata in uno dei momenti più bui della mia vita."

"Sono passati quattro anni, ed è stato necessario."

Feci fatica a credere alle mie orecchie. "Necessario?!" Alzai la voce. "Io sono stata accusata di omicidio, ho perso mia figlia e ho rischiato di morire e rimanere paralizzata, e tu mi dici che era necessario?!"

"Ho saputo solo dopo della bambina, e mi dispiace."

"No, non basta un 'mi dispiace'. Sei sparito per lavartene le mani, e io non ti perdonerò mai per questo."

"So cosa stai facendo" incrociò le braccia "stai sviando il discorso, perché? Cosa ti ha spinta a scomodarti a venire fino a Washington?"

"Volevo vederti in faccia un'ultima volta, prima di dirti che tu per me non esisti più." Cazzata. Volevo sì distrarlo, ma volevo anche che si rendesse conto che non era altro che un infame, proprio come George Foster e figlio.

The enforcer - Sventure di un insolito sicarioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora