Scimmie di mare

46 2 0
                                    

Se c'era una cosa che detestavo ancora di più di quando Striker mi chiamava nel suo ufficio, era quando a farlo era Chuck.
Vivevamo insieme, quindi il fatto che mi avesse convocata con urgenza e con un tono così perentorio, in un luogo formale e terrificante come la sua fortezza della solitudine ai Servizi Segreti, mi aveva messo una strizza tale da riconsiderare l'offerta di cambiare nome e continente che mi aveva fatto George Foster.
Avevo appena finito scuola, e l'unica cosa che avrei voluto fare era andare con Carl ad annaffiare con le autopompe, gentilmente fornite dal Dipartimento dei vigili del fuoco, gli hippie che stavano protestando, davanti al municipio, per legalizzare l'erba. Non sono contro la legalizzazione dell'erba, è solo che bombardare con l'acqua quegli scemi mi aveva sempre provocato un sollazzo indescrivibile. Invece mi toccava beccarmi una strigliata, seguita da un prevedibile furioso litigio, per solo il Cielo sapeva cosa.
Entrai nel suo ufficio senza nemmeno bussare e visibilmente scocciata. Notai subito che c'era qualcosa che non andava; Chuck era in piedi, appoggiato alla scrivania con le braccia conserte, e fin lì, niente di strano. Ciò che mi stupì è che non trasudava rabbia.
Ad ogni modo decisi di mantenermi all'erta, così gli chiesi cosa diamine avesse avuto da dirmi di così impellente da non poter aspettare.
Non disse una parola, ma sul suo viso spuntò un sorrisetto che faticai a decifrare. Ero ancora in piedi, a un metro dalla porta che avevo sbattuto magistralmente alle mie spalle dopo aver fatto il mio ingresso, quando lui si alzò e, sempre senza aprir bocca, cominciò a venire verso di me. Il suo anomalo atteggiamento mi stava a dir poco confondendo, e mi confuse ancora di più quando si fermò pochi centimetri davanti a me.
Chiuse la porta dell'ufficio a chiave.
Forse era la volta buona che mi avrebbe uccisa. Forse comprare quelle scimmie di mare era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

"Volevo vederti", mi disse, con tono quasi soave.

"Be', sono qui", gli risposi, adottando un'attitudine disinteressata. Se avesse fiutato anche la minima traccia di insicurezza, mi avrebbe sbranata.

"Sono stanco, Revell."

Pronunciò il mio nome con un tono che non gli avevo mai sentito usare: un misto fra seduttore e Saw L'enigmista.
Si avvicinò sempre di più, fino a quando la sua faccia si trovò a pochi centimetri dalla mia. Una mano era ben salda appoggiata alla porta alle mie spalle, contro la quale, un momento prima, mi aveva intrappolata, e l'altra si fece strada per poi trovare il mio fianco sinistro.
Il mio respiro diventò affannoso e irregolare, ma cercai comunque di mantenere la calma.

"Hai dormito poco?" Chiesi, con un filo di voce.

Ignorò la mia domanda.

"Sono stanco" e con la mano che non aveva su di me, mi prese dolcemente la guancia "di dover fingere di non volerti."

Deglutii sentendo quell'ultima affermazione. Mi aveva colto del tutto di sorpresa, e le mie difese stavano per cedere penosamente. La sua fronte incontrò la mia, e a quel punto le mie gambe mi sembravano fatte di gelatina. Era tutto così surreale, ed era ancora più surreale il fatto che, in quella circostanza, fra i due quella dotata di buonsenso parevo essere io. O magari era solo una reazione dettata dalla paura, un meccanismo del mio corpo per cercare di contrastare l'adrenalina e l'eccitazione che in quel momento stavano offuscando ogni barlume di lucidità. Per contrastare ogni impulso e ogni sforzo per allontanarmi.

"È una pessima idea", provai a dire con risolutezza, fallendo miseramente.

Sogghignò. "Stai tremando, questo mi conferma che non sono l'unico ad essere stanco."

Aveva ragione. Ma non potevo arrendermi, quindi tentai l'ultimo e disperato colpo: "Tu stai con Lucy."

"Lei non è te", affermò, accarezzandomi i capelli. "Nessuna lo è."

The enforcer - Sventure di un insolito sicarioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora