Capitolo 6

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Dopo la cerimonia, durante il tragitto verso casa, ha iniziato a diluviare. Siamo arrivate a casa in poco tempo e io sono corsa in camera per indossare qualcosa di caldo. Ho indossato una tuta e mi sono messa sul letto. Sarah mi ha chiamato poco dopo, durante la pausa pranzo. Ovviamente era al corrente di cosa fosse successo questa mattina. Anche se le maggiori vietavano di rivelare qualsiasi cosa sul nostro conto a un comune umano, Sarah è diventata come una seconda sorella per me. Con gli anni ha iniziato a sospettare di alcune cose arrivando alla conclusione che io fossi un alieno. Ho provato a farle cambiare idea per qualche settimana, ma quando ho visto che non succedeva ho deciso che era arrivato il momento di dirle la verità.
«O mio dio, con un coltello?» La sento esclamare dall'altro capo del telefono con un tono di voce troppo alto, talmente alto da farmi allontanare il telefono dall'orecchio. «Pugnale, per la precisione.» Una risatina divertita esce sommessa dalle mie labbra.
«O mio dio, peggio ancora! Greta ma sei consapevole del fatto che ti sei praticamente aperta una mano in due?» Mi sembra di vedere il suo corpo minuto ma muscoloso che rabbrividisce al solo pensiero.«Se fossi stata al tuo posto

penso che sarei svenuta!» Nella sua voce leggermente acuta si sente un pizzico di disgusto.
«Oh cara mia Sarah, io invece sono certa che sarebbe successo.» D'altronde, non sarebbe la prima volta. Ricordo quando, al secondo anno di liceo, caddi mentre stavamo correndo all'ora di ginnastica. Battei il ginocchio e mi sbucciai tutta la pelle. Usci un filo di sangue e questo basto per far finire Sarah nell'infermeria della nostra scuola. Non sopporta affatto la vista del sangue.
«Ah ah simpatica.» Anche se ha un tono di voce duro e sarcastico, so che sta cercando di trattenersi dal ridere. «Dai Greta, continua. Cosa è successo dopo?»
Apro la bocca per risponderle ma lei mi blocca e mi ruba il posto.
«Ah Greta, se nel racconto sono compresi sbudellamenti di conigli, patti con il diavolo o riti che comprendono animali morti; sei pregata di saltarli.» Alzo gli occhi al cielo mentre sento il debole suono della sua dolce risata.
Inizio a parlare e nel contempo studio il palmo della mia mano sinistra. Come aveva detto la strega maggiore più giovane, il taglio si è già perfettamente richiuso, lasciandosi dietro solo il ricordo della sua esistenza impresso della mia mente. Se qualcuno mi guardasse le mani in questo momento, non immaginerebbe mai che un taglio tanto ampio fosse impresso nella mia carne solo poche ore fa. Dopo trenta minuti di chiamata, durante i quali la mia migliore amica pranzava in bagno in modo da non farsi sentire da nessuno, Sarah ha ripreso le lezioni; mia madre è uscita per iniziare il turno come barista al bar a due isolati da casa nostra. Mia madre lavora là solo per il gusto di farlo, non per i soldi. Ethel Dixon è una donna

estremamente energica che cerca di intrattenersi in qualsiasi momento della sua giornate facendo mille attività diverse. Non ci servono degli incassi extra. La nostra famiglia è benestante da generazioni, quindi deduco lo faccia perché le piace.
Fuori dalla porta finestra la pioggia continua a cadere incessantemente. Il suono della pioggia che si abbatte sul balcone crea uno dei miei sottofondi preferiti. La luce grigiastra entra attraverso le tende: illuminando abbastanza da non dover accendere la luce, ma non abbastanza da poter leggere. Giro la testa verso il comodino e controllo l'ora sulla piccola sveglia rosa che ho da quando sono piccola. Sono le 12:50 e mi sembra di non dormire da una vita. Stesa sul letto sento le palpebre farsi pesanti, e il sonno chiamarmi a se. Decido di assecondare quella voce posizionando il mio corpo in una posizione migliore. Lascio che il mio corpo si rilassi e svuoto la mente, mentre Morfeo mi accoglie tra le sue braccia cullati dal suono della pioggia.
Apro gli occhi. Ho il corpo indolenzito e rannicchiato in posizione fetale su un freddo pavimento di mattonelle bianche. Sento lo scoppiettio del fuoco intorno a me. Mi bruciano le narici e la gola. Fa caldo e l'aria è soffocante. Mi porto la mano alla nuca per scostare i capelli dalla fronte e scopro di star sudando. Provo ad alzarmi e, dopo un paio di tentativi riesco a mettermi in piedi, ma qualcosa non quadra. Non mi sento nel mio corpo. Abbasso lo sguardo e incrocio le gambe esili di una bambina. Le piccole manine si muovono mostrandomi prima il dorso e poi il palmo. Cosa sta accadendo al mio corpo? Inizio a

tossire e mi guardo intorno. Un muro di fiamme blu, alto più di due metri, si erge intorno a me. Davanti ai miei piedi, a pochi passi da me, c'è il pugnale che ho usato questa mattina. Dal momento in cui lo noto, il mio corpo si paralizza, e ne perdo il controllo. Pochi istanti dopo, tra le fiamme si apre un varco e una figura minuta dai capelli castani va il suo ingresso. Quella figura è mia sorella. «Tracy!» La chiamo con voce sommessa. È una voce che non mi appartiene, non appartiene alla Greta di adesso. Sono quasi sicura di essere come ringiovanita, perché la voce che esce dalle mie labbra è dolce e pura. È la voce di una bambina.
Lei non mi parla. Si limita a fissarmi senza che alcuna emozione le passi per il volto. Questa figura assomiglia tremendamente al un cadavere. La pelle è chiara, troppo chiara per la carnagione di mia sorella. I capelli sfibrati e spenti non sono come quelli che conoscevo; Stacy adorava farsi pettinare i capelli, ed essi erano sempre lucenti e morbidi. Il viso inespressivo non le si s'addice affatto. Sento le lacrime bruciarmi negli occhi e rigarmi il volto in un pianto silenzioso. Vorrei correre da lei, abbracciarla e rimanere in quella posizione per l'eternità, ma il mio corpo è come pietrificato.
Una voce autoritaria e ferma sovrasta il rumore del fuoco. «Greta, raccogli il pugnale. Compi il tuo dovere.» Dovere? Ma di cosa sta parlando?
Sento il mio corpo che lavora in autonomia. La mia testa si piega in avanti annuendo. Le gambe pesanti si muovono in direzione del pugnale, si piegano e il braccio destro lo raccoglie. Intravedo il riflesso del volto di una bambina che piange. Conosco fin troppo bene quel volto; lo stesso

volto che ho avuto per mesi dopo la morte si Stacy.
Il corpo si alza e inizia a camminare lentamente verso mia sorella. Che succede? Provo a parlare ma la bocca è come serrata. Provo a bloccare le mie gambe ma non ho alcun controllo su di esso. Sono a due passi dalla bambina dall'aspetto cadaverico che assomiglia a mia sorella. Lei non è mia sorella. Mia sorella è morta. Le corte gambette si muovono ancora e mi ritrovo ad esserle di fronte. Sento la mano stringersi attorno al manico dell'arma che si alza e si conficca con forza dell'addome di questa bambina. Appena la lama entra a contatto con la sua carne, però, il manichino quasi inanimato riprende vita.
Il viso riassume un po' di colore; i capelli si voluminizzano; gli occhi si riempono di stupore e lacrime; e la bocca si spalanca per la sorpresa. «Greta» la ragazza, che adesso sono sicura essere mia sorella boccheggia mentre rivoli di sangue le sgorgano dalla ferita da me inflitta. «Ti prego aiutami.» Il suo corpicino crolla in ginocchio, si stende sul pavimento e si dissolve.
«Stacy, Stacy non andare! Non mi lasciare. No, no, no!»
Mi sveglio urlano e scalciando sopra le coperte. È stato solo un incubo, ma è stato come perderla un' altra volta. Sento il sudore scorrermi lungo le tempie e i vestiti appiccicarsi al corpo. Fuori la pioggia si è arrestata e nella stanza regna il silenzio assoluto. Controllo l'ora, 15:34; mia madre dovrebbe tornare tra qualche decina di minuti. Mi alzo in fretta e mi dirigo in bagno. Supero lo specchio, non voglio vedere la mia faccia. Mi spoglio e entro in doccia.
Rimango lì sotto per un sacco di tempo. Rivivo la scena un migliaio di volte, fino a che non ho esaurito le lacrime. A

quel punto esco. Indosso l'accappatoio e tampono i capelli con un asciugamano. Metto i vestiti a lavare e indosso un pigiama rosa e grigio. Pettino i capelli e lascio che si asciughino all'aria. Mi lavo i denti evitando accuratamente di guardare il mio riflesso e scendo in cucina a mangiare qualcosa. Scendo le scale giusto in tempo per vedere entrare mia madre dal portone di casa.
«Ciao tesoro, stai bene?» Me lo chiede sempre e la risposta è sempre la stessa.
Annuisco e alzo il pollice, ma non ci do tanta importanza, e nemmeno lei credo.
Vado in cucina, apro lo sportello del frigorifero e ne tiro fuori un succo di frutta. Lascio che lo sportello si richiuda da solo mentre allungo una mano verso il cestello della frutta. Prendo una banana e ritorno in camera mia. Accendo le lampade, prendo il diario di Oscar e mi siedo alla scrivania. Infilo la cannuccia nel foro del cartoncino e bevo un sorso di succo, lasciando da parte per dopo la banana. Apro il diario alla prima pagina e mi scivola tra le mani un foglio ripiegato. Lo apro e mi ritrovo a fissare una donna dai capelli riccioli, le lentiggini e un viso attraente. Decido di metterlo da parte e inizio a leggere.
27 luglio 1612 Non so come iniziare il discorso. È cominciato tutto quel
venerdì pomeriggio...

Non moriremo maiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora