5. Lino nella gabbia dei leoni

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Lo spettacolo teatrale si era da poco concluso e la performance di Lino mi aveva lasciata esterrefatta. Ero bloccata sulla seduta numero 16, nonostante il sipario si fosse richiuso già da parecchi minuti.
Stefania iniziò a strattonarmi per provare a farmi riconnettere con la realtà. Non c'era verso di scuotermi da quello stato di profondo smottamento emotivo che l'azione teatrale aveva suscitato in me.
Aveva ragione Stefania, pienamente ragione, mi toccava ammetterlo. Vedere Lino in teatro era qualcosa di completamente diverso rispetto al guardare le fiction che interpretava in tv. Era come vedere un animale selvatico nel suo ambiente naturale, e non rinchiuso nella gabbia dorata del circo. Sul palcoscenico esprimeva tutto il suo potenziale, la sua immensa preparazione e bravura di attore venivano fuori espresse alla massima potenza.
Ero leggermente scioccata, e mai mi sarei aspettata quel tipo di reazione da me stessa.
Provai a ricompormi, anche perché se Stefania avesse continuato a martoriarmi il braccio come stava facendo, forse, fino alla fine, al posto di tornare a casa mi sarei dovuta fare un bel giretto in Pronto Soccorso.
<< Sara, cavolo, ma che ti prende?>>. Continuava a ripetermi, colpendomi ripetutamente sul braccio destro. Immaginai i lividi che mi sarei ritrovata il giorno dopo proprio lì, dove le sue mani si ostinavano ad infierire.
<< Stè, è tutto ok, stai calma!>>
<< Pensavo ti fosse presa una Sindrome di Stendhal teatrale, tutto in una volta!>>, mi schernì ed io risi assieme a lei.
<< Ma no, ma no. Sono solo rimasta parecchio colpita dalla performance >>
<< Te lo avevo detto! Ti avevo avvertita! Lo sapevo che sarebbe successo. È così... in tv sembra un altro attore, un'altra persona>>
<< Sì, qui sembra veramente nel suo elemento. Non lo conosco personalmente da poter fare confronti sul suo atteggiamento qui ed altrove, ma ho notato in lui una forte sicurezza, che non mi sembra di aver notato così chiaramente in altre situazioni! >>.
Stefania si disse concorde con la mia osservazione e, mostrandosi più mondana e spregiudicata di quanto avrei mai sospettato potesse essere, mi chiese se volessi rimanere ancora un po' in teatro, in quanto il bel Lino (parole sue!) aveva l'abitudine di tornare a salutare in fan dopo essersi spogliato degli abiti di scena. Chissà... magari avrebbe potuto mettere gli occhi su una fra noi due!
Le dissi che, purtroppo, dovevo scappare, perché il giorno successivo già alle 7.30 sarei dovuta essere in fiera per gli ultimi preparativi.
Mi sembrò indelicato farle notare che uno come quello mai avrebbe notato una come me. Su una come lei non volevo esprimermi. I trenta avevano contribuito ad accrescere la mia autostima, ma non certo a quel livello! E poi... io stavo bene da sola. Cercavo di convincermi ogni giorno che quello potesse essere il momento giusto per rimettersi in gioco, ma ogni volta ci rinunciavo. Non mi sentivo pronta a donare la mia fiducia a chi, potenzialmente, avrebbe osato tradirla.
Quello che non le dissi fu anche che volevo che il mio primo incontro con Lino fosse organico, privo di precedenti. Volevo che lui mi conoscesse sul set, non così, a teatro. Volevo che vedesse di me il lato professionale e non mi scambiasse invece per una di quelle fan psicopatiche che lo rincorrono fino all'ingresso dell'hotel. Volevo che mi conoscesse come Sara Terami, la giovane set designer che avrebbe lavorato fianco a fianco con lui e con tutto il resto della crew al fine di rendere perfetto ogni dettaglio della serie in cui avrebbe recitato. Volevo che l'immagine di me non fosse macchiata da preconcetti. Troppe volte era successo. E, dopo l'ultima volta, decisi che mai sarebbe capitato ancora.
Uscii dal teatro salutando la dolce Stefania che attendeva il suo Lino, proprio mentre lui sbucava dalla quinta sinistra per far ritorno dal suo pubblico, che nella quasi totalità ancora lo attendeva, paziente ed allo stesso tempo chiassoso.
Sentii il silenzio calare, nel momento esatto in cui io uscivo dalla porta principale della sala. I suoi occhi si posarono per un secondo su di me, forse perché ero l'unica a muoversi nella direzione opposta, non verso di lui, ma lontano da lui. I nostri sguardi si incrociarono per un breve frangente, poi svincolai il mio dal suo.
Ricollegai l'immagine di lui che si faceva strada sul palco alle volte in cui a scuola arrivava il preside durante le assemblee di istituto e si faceva strada nello sciame informe di giovani ragazzi e ragazze, che, vedendolo avvicinarsi, ammutoliva completamente. Non volava più una mosca.
"Che poteri magici avrà quest'uomo!?", mi chiesi, mentre ero ormai vicina alla fermata della metro.
Non trovai risposta al mio interrogativo. Forse solo conoscendolo per davvero uno avrebbe potuto intuire perfettamente le ragioni di cotanto rispetto, di tutta quella stima e, in certi casi, persino venerazione.
Mi infilai nell'armatura di ferro cigolante che mi avrebbe ricondotta a casa, ma non potei fare a meno di ripercorrere con la mente le due ore appena trascorse. La mia memoria rimise in fila volti, espressioni, spazi. E proprio su questi ultimi si soffermò maggiormente, forse per mia deformazione professionale.
Pensai a quanto la scenografia avesse lavorato per sottrazione, a quanto tutto ciò che c'era sul palco fosse a servizio degli attori che su esso si muovevano e non il contrario, come spesso accadeva. Pensai a quanto i pezzi di scena completassero il senso delle azioni degli attori ed a quanto poco bastasse, quando la qualità della recitazione era di quel livello. Alto. Altissimo. Tanto alto da far sembrare un surplus di pezzi di scena un puro e semplice ammasso di ciarpame. Inservibile. Inutile.

Immersa in questo susseguirsi di pensieri, feci appena in tempo ad accorgermi che c'era solo una fermata ancora prima della mia.
Mi sollevai dal sedile e con le sole mani stirai leggermente i vestiti che indossavano e che, a forza di star seduta, si erano riempiti di grinze.

Casa dolce casa.
Scarpe via, reggiseno via, elastico tra i capelli.
Mi infilai sotto le coperte dopo poco e Morfeo questa volta non mi fece penare, ma mi accolse immediatamente fra le sue braccia, cullandomi in un profondo sonno ristoratore.
La giornata successiva sarebbe stata impegnativa, ma non volevo buttarmi giù.
"One more sleep", come si dice in inglese, e sarei partita alla volta di Napoli.
Non ci potevo credere che il giorno fosse arrivato così in fretta, ma non vedevo l'ora di partire.
Cambiare aria mi avrebbe fatto bene e poi... dovevo ammettere (in primis a me stessa) che anche io iniziavo a pensare che lavorare a contatto con Lino sarebbe stata un'esperienza entusiasmante.

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