24. Disinnescare

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Dopo giorni e giorni di interminabili sedute di psicoterapia, perché potessi riuscire nuovamente a gestire una mente che non ne voleva saperne di starsene calma, e di fisioterapia, perché potessi ritornare a padroneggiare quel corpo che per troppo tempo era rimasto fermo, inchiodato ad un letto d'ospedale, con le sue funzioni ridotte al minimo indispensabile per garantirmi la sopravvivenza, era ora di far ritorno alla vita normale.
I medici la definivano così. Dicevano che nulla più mi impediva di farlo, che potevo tranquillamente far ritorno alle mie abitudini, alla mia normalità. Ancora una volta questa parola: "normalità", declinata in tutte le sue forme. Ma cosa voleva dire veramente? Cosa significava per me, che di normale ormai non vedevo più nulla?

Dopo una settimana e mezza di vicinanza, supporto costante, braccia possenti che mi tiravano su e mi scortavano in bagno ed alle varie sedute, dolcissimi baci ed amore vero, anche Lino era dovuto tornare alla sua di "normalità". Il set di "Non dirlo al mio capo" lo reclamava, poiché le riprese sarebbero iniziate nei mesi successivi.
Inutile dire che il mio aiuto lì non sarebbe stato più necessario. Il progetto era stato affidato ad un altro interior designer, a cui Doriana aveva però esplicitamente richiesto di non modificare quanto da me già delineato, ma solo di completare ed arricchire. Mi disse che non immaginava un'altra persona prendere il mio posto e che il minimo che potesse fare perché la mia traccia rimanesse ovunque a Napoli, fosse appunto rispettare e preservare quanto già avessi messo in atto, o anche solo ipotizzato. Cercava un esecutore, non un ideatore, mi disse.
Le volevo un gran bene, per questo e per mille altri motivi. Mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi a Milano appena le fosse stato possibile e che saremmo andati a cena tutti e tre insieme, io, Lino e lei. Non vedevo l'ora di poterla finalmente riabbracciare.

Di Diego non avevo voluto sapere più nulla. Non sapevo cosa stesse facendo, cosa ne fosse stato di lui ed in quale angolo di mondo stesse marcendo, consumando i suoi giorni.
Avevo deciso di denunciarlo e dunque, oltre alle interminabili sedute di cui sopra, mi era toccato anche rispondere più volte alle domande degli inquirenti, che avevano raccolto le cartelle cliniche, chiesto che ripercorressi quasi minuto per minuto le ore trascorse con il mio ex in quel casale desolato del modenese e che avevano acquisito anche la perizia del medico che mi aveva visitata per prima, in pronto soccorso, al fine di confermare che non ci fosse stata violenza carnale. Come se il fatto che l'atto vero e proprio non si fosse verificato, potesse scagionare chi aveva cercato di compierlo o alleggerirgli in qualche modo la pena, mitigarne le conseguenze.

Nei giorni in cui tutto questo mi capitava, Lino era lontano. Nei miei momenti di maggior fragilità, lui non c'era.
Quando mi mancava la forza di ripercorrere quelle ore di terrore, in cui avevo cercato di mantenere un contegno apparente, la calma, ma in cui dentro di me tutto prendeva fuoco, lui non c'era. Durante quei terribili incontri a bordo letto con gli inquirenti, che sembravano più interrogatori che tentativi di rimettere assieme i pezzi di un pomeriggio ormai lontano nel tempo (per loro, ma marchiato a fuoco nella mia memoria) ero sola. Ancora una volta.

Proprio allora i fantasmi del passato cominciavano a bussare alla porta, a farsi vivi. Nella mia mente riaffiorarono le sue parole, quelle delle donne che erano state con lui, e che mi ricordavano che quello che stava capitando a noi era già successo con loro e che nulla avrebbe impedito che potesse succedere di nuovo.
Anzi, stava già accadendo, mi ricordavano.
Il suo lavoro tutto risucchiava e la dedizione con cui ad esso si dedicava, ora lo capivo perfettamente anche io, avrebbe potuto causare anche tra noi astio, inasprimenti, gelosie.
Cercai in tutti i modi di bloccare questi rancori sul nascere, ricordando i momenti in cui lui c'era, quelli belli ed inaspettati.
Una sera, per esempio, aveva fatto preparare per noi due da una salumeria a pochi passi dall'ospedale una cena a base di affettati, parmigiano e gnocco fritto, che aveva poi portato in stanza da me. Aveva preparato tutto mentre io ero in bagno a lavarmi ed aveva persino stappato una bottiglia di lambrusco, con cui disse che avremmo annaffiato quella cena.
Fu una serata stupenda, speciale, soprattutto perché a cena finita ci accoccolammo sul letto abbracciati, sognando ad occhi aperti la nostra prossima vacanza, quando sarei uscita da lì.
Gli confessai che sarei voluta tornare a Firenze. Mi promise che quella sarebbe stata la prima tappa dei nostri infiniti viaggi insieme.
Iniziammo a sognare di quando avremmo salito insieme i gradini strettissimi che conducono sulla cupola ideata da Brunelleschi. Arrivati in cima si può vedere tutta Firenze dall'alto. Lì ci saremmo baciati, a lungo, attirando qualche sguardo di diniego, ma a noi non sarebbe importato. E dopo il tramonto ed una buona cena a base di bistecca alla fiorentina e pici al sugo di cinghiale, saremmo tornati in camera a fare l'amore.
Almeno in sogno potevamo ancora farlo.

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