Capitolo 13

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UN ANNO E MEZZO PRIMA

Erano giorni ormai che Can entrava e usciva da uno stato di semi incoscienza che gli aveva fatto perdere il senso della realtà. Non sapeva dove si trovasse, se fosse notte o giorno ed erano mesi che non parlava con nessuno, tanto da aver dimenticato, quasi, come si articolavano le parole. L'unica immagine che non lo abbandonava mai era quella di una giovane donna che lo guardava sorridente: il suo angelo.

La liberazione di Kevin gli aveva fatto credere che anche la sua fosse vicina, ma poi i suoi rapitori lo avevano ceduto a un altro gruppo di ribelli e, allora, le sue speranze si erano spente come candele al vento. Ormai era convinto che non lo avrebbero più rintracciato e pian piano si lasciò andare. Faceva fatica a mangiare, a bere e la febbre che spesso lo colpiva gli procurava brividi e convulsioni. I suoi nuovi aguzzini avevano infierito sul suo fisico, solo per il piacere di farlo o, forse, per testarne la forza. Bruciature di sigarette e frustate avevano lasciato segni indelebili sul suo petto e sulla schiena, ma le ferite peggiori erano state quelle inferte al suo spirito. Era stato privato della sua dignità, deriso, umiliato, trattato come un animale, finché aveva ceduto e pregato che quella tortura giungesse alla fine.

Trascorreva l'intera giornata raggomitolato in posizione fetale nel suo pagliericcio e fu così che lo trovarono sei mesi dopo il rilascio di Kevin, uomini delle forze speciali americane.

Il governo statunitense aveva pagato un riscatto per il rilascio del suo giornalista, mentre quello turco si era rifiutato di trattare con i ribelli, tanto più che Can si era recato in Congo come fotografo freelance ingaggiato da una rivista newyorchese.

Kevin, però, non aveva dimenticato e, rientrato negli Stati Uniti, aveva messo in campo tutte le sue conoscenze per aiutare Can. Ne aveva fatto un caso mediatico e, alla fine, era riuscito a raccogliere denaro sufficiente per barattare la liberazione dell'amico e alla fine ci era riuscito.

Dopo le prime cure all'ospedale di Kinshasa, Can era stato portato a Parigi, dove viveva la madre, e qui si era ristabilito quel tanto che bastava per rientrare a Istanbul. Il percorso riabilitativo fu lungo e doloroso non tanto fisicamente quanto psicologicamente. I primi tempi non lasciava avvicinare nessuno, poi poco a poco si convinse che le persone vicino a lui volevano aiutarlo e cominciò ad aprirsi e a raccontare. Ricordare non era facile ma era necessario per liberarsi dalla paura e ricominciare a vivere. L'esperienza che aveva passato, per quanto difficile ed estrema fosse stata, non poteva essere dimenticata e tanto meno Can poteva fingere che non fosse mai accaduta. Il processo di guarigione consisteva proprio in questo: nell'accettare quello che era successo senza sentirsi né vittima, né responsabile. Commiserarsi o provare dei sensi di colpa non avrebbe portato da nessuna parte.

Lentamente Can si rimpossessò della sua vita.

Riprese a lavorare, a frequentare gli amici e a fare sport. Da Metin seppe che Sanem aveva avuto un bambino, Efe, e che si era trasferita alla periferia d'Istanbul. Non aveva voluto tornare a lavorare per lui, perciò l'aveva aiutata a trovare un impiego presso lo studio legale di un suo amico: Engin Brusin. Non sapeva se frequentasse qualcuno, non si sentivano spesso e ancor meno si vedevano, ma da quanto gli raccontavano, si dedicava unicamente al piccolo e al nuovo lavoro. L'unica distrazione che si concedeva, ogni tanto, erano le gita fuori porta con la sia amica Ayan, proprietaria, anche, della casa in cui era andata ad abitare.

Nell'apprendere quelle notizie Can si sentì, in qualche modo, sollevato, anche se non si illudeva che la strada per riavvicinarsi a lei e a suo figlio sarebbe stata facile, ma doveva provarci.

Più volte si era recato da lei con l'intenzione di parlarle, ma poi gli era mancato il coraggio e si era accontentato di osservarla da lontano mentre giocava con Efe in giardino, cercando, così, di placare la sete d'amore che sentiva dentro di sé.

Ben presto, però, quegli appostamenti non gli bastarono più, al contrario lo facevano sentire un ladro, un guardone e alla fine si impose di bussare alla sua porta.

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