Capitolo 20

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OGGI

Quando si diventa genitori una delle cose che si desiderano di più è sentirsi chiamare "mamma" e papà", salvo poi pentirsene, quando quelle parole vengono ripetute all'infinito, dalla mattina alla sera, come una specie di mantra.

Sanem aveva già goduto di quella gioia, mentre Can si chiedeva se sarebbe mai successo.

Quella mattina, come al solito, Efe si era svegliato piagnucolando, perché voleva essere tolto dal lettino e coccolato, ma questa volta quando Sanem si presentò, lui la mandò via, puntando il ditino verso Can che era a fianco a lei.

"Pa-pà, pa-pà", ripeté "no mamma, papà" aggiunse per essere certo che lo avessero capito.

Can si immobilizzò, troppo emozionato per reagire e con lo sguardo cerò Sanem, per avere una conferma. Lei gli sorrise incoraggiante e lo invitò a prendere il bambino: "Mi pare che questa piccola peste oggi voglia te e se non vuoi che scoppi a piangere disperato ti consiglio di affrettarti a prenderlo in braccio... Io intanto vado di là a preparagli il biberon e a godermi la colazione che hai cucinato", concluse ridendo.

"Oh, d'accordo, allora... Vieni qui ometto, vieni dal tuo papà" disse Can con la voce rotta dalla commozione, sollevando Efe e stringendolo tra le braccia.

Il piccolo si sistemò meglio, poggiò la testolina nell'incavo del collo di Can, le manine sulle sue spalle larghe e attese che questi cominciasse a massaggiargli la schiena e a sbaciucchiarlo, come solitamente faceva la mamma.

Fu così che Sanem li sorprese, quando riapparve con il biberon in mano e le parve di assistere a un momento di assoluta perfezione. Se l'amore e la tenerezza si potessero ritrarre, lei li avrebbe dipinti così: un padre che stringe a sé suo figlio, accarezzandolo e sussurrandogli parole confortanti.

Dopo aver dato da mangiare a Efe fecero colazione e si preparano per uscire.

Avevano deciso di trascorre l'intera giornata all'aria aperta. Can conosceva bene i dintorni e poco lontano da lì c'era una piccola radura, facilmente raggiungibile a piedi, dove avrebbero potuto stare in tranquillità e godersi il sole.

Erano elettrizzati come ragazzini, pronti ad affrontare una nuova avventura, anche se entrambi sapevano che la strada per riavvicinarsi e ritrovare la complicità era ancora lunga. Spesso si sorprendevano a guardarsi di sottecchi ed era chiaro che cercavano tutti gli stratagemmi per stare vicini, sfiorarsi, toccarsi. Eppure c'era, tra loro, una sorta di pudore, di timore di fare qualcosa di sbagliato, che li frenava e li rendeva impacciati.

Nonostante avessero già un trascorso insieme, che aveva portato alla nascita di un figlio, dovevano conoscersi di nuovo, riscoprirsi, riadattarsi l'uno all'altra, perché, pur essendo sempre loro, Can e Sanem, erano diversi. Le esperienze vissute separatamente li avevano segnati nel profondo, li avevano cambiati. Erano cresciuti, maturati ma dovevano rimparare a essere coppia, anzi, forse una coppia non lo erano mai stati davvero, perché di fronte al primo grande stravolgimento che li aveva coinvolti si erano persi. Che la colpa fosse stata di Can aveva poca importanza.

Quando si erano conosciuti si erano lasciati sopraffare dall'attrazione che li aveva spinti l'una verso l'altro, si erano amati con passione, godendo delle attenzioni reciproche, ma non avevano mai parlato, comunicato veramente. Non si erano mai confidati i propri sogni o le proprie paure, ammesso le proprie sconfitte, condiviso le delusioni, neppure una volta e questo era stato il loro limite più grande, forse il solo.

Proprio per questo motivo, quel pomeriggio, mentre erano seduti all'ombra di un albero con Efe che dormiva accanto, Sanem prese coraggio e chiese: "raccontami cosa è successo laggiù, in Congo..."

Can la scrutò attentamente e comprese che lei voleva sapere davvero, ma non per consolarlo o compatirlo, ma per capire, senza giudicare né lui né i suoi aguzzini, così iniziò a raccontare:

" Avevamo preparato i bagagli per tornare a casa, finalmente, dopo due mesi di lavoro. Avevamo visto di tutto: la guerra in tutte le sue sfaccettature ed eravamo felici che fosse finita. Durante la notte, però, l'ultima che avremmo dovuto trascorre in Congo, un gruppo di rivoltosi fece irruzione nella nostra stanza e ci prese prigionieri. Dopo alcuni mesi concessero la libertà a uno di noi, a nostra scelta. Kevin era molto più provato di me e quindi era giusto che fosse lui a essere rilasciato per primo. Io ero fermamente convinto che anche la mia liberazione sarebbe stata ormai questione di giorni, ma mi sbagliavo... Passarono le settimane e nulla cambiava, finché fui venduto a un'altra banda di ribelli. Fu allora che cominciarono le torture. Per un po' riuscii a sopportare, ma poi, lentamente le forze vennero meno e iniziai a lasciarmi andare... Volevo solo che tutto quel dolore finisse, non ne potevo più!"

Can smise di parlare, gli occhi umidi di lacrime.

"E poi?"chiese Sanem

"Poi quando ormai avevo perso tutte le speranze dei soldati americani mi hanno liberato. Sono stato portato all'ospedale di Kinsasha e poi a Parigi, dove mia madre si è presa cura di me finché non sono rientrato a Istanbul dove ho proseguito con la riabilitazione. E' stato un percorso lungo e sofferto, non lo nego, ma mi ha anche permesso di capire tante cose di me che altrimenti avrei continuato a ignorare..."

"Ad esempio?"lo spronò di nuovo Sanem poiché lui, ancora una volta aveva smesso di parlare.

"Ad esempio che non sono forte come pensavo, che la solitudine mi spaventa, che non posso controllare e, soprattutto, non devo controllare tutto, che non c'è nulla di sbagliato a piangere, a lasciarsi andare alle emozioni e a quanto meraviglioso sia amare ed essere amati."

Sanem lo ascoltava attenta a ogni parola, a ogni intonazione della voce, a ogni espressione.

"Ti sei mai chiesto perché proprio a te?"

"In realtà sì. E' la prima domanda che ti fai in simili circostanze, ma ben presto ho capito che se continuavo a voler trovare una risposta, sarei impazzito, mentre dovevo focalizzare la mia mente su un obiettivo che mi desse la forza di andare avanti un giorno dopo l'altro."

"E cioè?"

"Tornare da te e da nostro figlio. Siete stati voi a permettermi di tornare da quell'inferno..."

Seguì un lungo silenzio. Sanem ora sapeva e Can si sentiva sollevato. Era stato più facile di quanto avesse pensato. Con lei accanto, che conosceva la verità, ora era certo che anche gli incubi notturni sarebbero passati per sempre.

Ne ebbe la conferma quella sera stessa. Stava per sistemarsi sul divano del soggiorno quando Sanem lo fermò: "Cosa stai facendo? Non penserai mica di dormire qui?"gli chiese sorpresa e contrariata.

"Beh, sì..."

"Perché?"

Can sembrava imbarazzato: "Non voglio affrettare le cose Sanem. Non fraintendermi, Io ti desidero, tanto, ma credo che nessuno dei due sia pronto..."

"Hai ragione, ma se continuiamo a mantenere le distanze non lo saremo mai. Io ho bisogno non solo di sapere che mi sei vicino, ma anche di sentirti accanto... Potremmo dormire insieme come ieri sera, che ne dici?"

Un bellissimo sorriso comparve sul volto di Can: "Non osavo chiedertelo, speravo lo facessi tu...perché ho davvero bisogno di stringerti tra le mie braccia."

Senza aggiungere altro andarono in camera e si stesero una vicino all'altro; poi, Sanem, poggiò la testa sul suo petto, all'altezza del cuore e lo invitò a cingerle la schiena con un braccio. Lui non se lo fece ripetere e inebriato dal suo profumo, dopo averle baciato la testa, scivolò in un sonno profondo libero dai fantasmi del passato e finalmente rigenerante.

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