Senza futuro

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Le persone che avevano acceso il camino o i bracieri per riscaldarsi in quella umida e nuvolosa mattina d'ottobre si rotolavano sul terreno nel tentativo di spegnere le fiamme che avvolgevano i loro corpi. Il rombo delle case distrutte dai massi infuocati che a intervalli piovevano dal cielo e le loro urla strazianti si mischiavano alle centinaia di grida d'incoraggiamento, dolore e paura, in un unico frastuono senza fine. Solo a tratti, il boato di un'edificio che crollava era capace di coprire quelle strilla.

E poi queste riprendevano, più di prima, mentre i bambini cercavano di spostare i cari da sotto le macerie e le mamme stringevano al petto i corpi inermi dei figli. Le lacrime si maschiavano alla polvere mentre dondolavano assenti dal mondo, senza curarsi dei pericoli che le circondavano.

Non più al sicuro nemmeno nelle loro case, gli abitanti inondavano le strade nel tentativo di allontanarsi dalle linee di difesa che una dopo l'altra stavano crollando. Erano come topi in trappola, cercavano solo di ritardare l'inevitabile. Quasi l'intera guarnigione si era ritirata senza preavviso e i civili e i mercenari erano stati abbandonati al loro destino. L'assedio era ormai giunto alle sue fasi finali.

Tutto quel paesaggio di distruzione e devastazione si rifletteva negli occhi spalancati del bambino aggrappato al mantello sgualcito di un mercenario che stava cercando di aiutare la sorella intrappolata tra le macerie.

<Tranquillo, ci sono quasi> mormorò a denti stretti al ragazzino mentre, facendo leva con la spada, smuoveva il pesante tavolo di legno sotto cui era bloccata la bambina.

Rifonderò l'arma nella custodia sulla schiena e senza pensarci due volte la afferrò e tenendo per mano il bambino iniziò ad allontanarsi il più velocemente possibile; la prima linea dell'esercito laeta era sempre più vicina.

Un nugolo di frecce fischianti gli confermò la cosa e si riparò dietro un muro diroccato mentre queste si spezzavano contro il lastricato della strada o colpivano senza fare distinzione tra civili e guerrieri. Un coro di gemiti e grida di dolore si aggiunse al frastuono che li circondava e nervoso strinse forte la mano del bambino, riprendendo la sua ritirata tra i corpi inermi.

Il mercenario riconobbe un suo compagno e strattonò il ragazzino nella direzione di questo.
<Tieni la bambina> urlò per farsi sentire nel baccano, mettendogliela tra le braccia prima che questo avesse il tempo di rispondergli. Il compagno gli lanciò un'occhiata stranita. <Ma Daichi, è morta>.

Impallidì e la palpebra dell'occhio mancante tremò. Per i guanti e la fretta di allontanarsi non se n'era accorto. Strattonò il bambino e con una mano gli girò la testa per distogliergli lo sguardo stralunato della sorella che veniva malamente gettata su un mucchio di cadaveri. Doveva riuscire a portarlo dietro le loro linee di difesa il più velocemente possibile.

Soffocò un gemito quando una freccia gli colpì la spalla e incespicò in avanti per la forza del colpo che l'aveva colto alla sprovvista, ma strinse i denti e riuscì a non cadere. Mancava poco alle barricate e linee di scudi dietro ai quali sarebbero stati al sicuro per qualche ora, nella migliore delle ipotesi.

Il terreno iniziò a tremare sotto i suoi piedi e d'istinto si gettò in una stretta viuzza. Nei suoi anni di esperienza aveva imparato a temere quando la terra, in un luogo senza ripari, si metteva a vibrare.

Accanto a loro una carica di cavalleria travolse i mercenari che non avevano fatto in tempo a raggiungere la barricata o a scansarsi, zittendo alcune urla o creandone di nuove. Volevano sfondare quel muro di scudi che per lui rappresentava la salvezza, ma un nugolo di frecce fischiò nell'aria e rallentò la loro corsa, i cavalli lanciarono nitriti dolorosi mentre si impennavano e disarcionavano i cavalieri più impreparati.

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