Capitolo 5

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È quasi mezzogiorno e alla locanda continuano ad arrivare persone affamate.

Il piatto del giorno è una minestra di broccoli cotta nel vino, con l'aggiunta di pinoli e uva passa. Non ha un buon odore, perché i broccoli non hanno un buon odore, ma il vino cerca di coprirlo come può. Sarà anche il mio pranzo quindi spero sia buona.

Publia mi passa la brocca colma di vino e mi dirigo in sala. Mentre riempio il bicchiere ad un cliente abituale, cercando di non pensare al fatto che mi stia guardando il seno, la mia attenzione viene attirata da una ragazza che varca l'entrata della locanda.

Non è il tipo di ragazza che frequenta posti come questo, e di certo non una mendicante. Un sacco di donne con dei fili bussano alla porta sul retro chiedendo del cibo che Livia gli dà di buon grado. È di certo la persona più buona e generosa che io abbia mai conosciuto, sempre pronta ad aiutare il prossimo.

La ragazza sembra essere più piccola di me, vestita di seta azzurra e piena di gioielli d'oro ai polsi, alle caviglie, attorno al collo e alle orecchie. E tra i capelli biondi raccolti in uno chignon pieno di trecce, splende una corona d'oro sottile. Ha degli occhi piccoli di un verde smeraldo. Sembrano delle gemme nel suo viso lungo e sottile.

Catturata da questa visione faccio accidentalmente cadere del vino sul tavolo. Mi affretto a pulirlo con uno strofinaccio prima che qualcuno se ne accorga. Non voglio che pensino che io sia sbadata o distratta sul lavoro.

"No, non è qui" sento dire dall'oste rivolto alla ragazza..

"Eccolo" dice una delle due ancelle ai suoi fianchi. Suppongo che siano gemelle. Hanno entrambe gli stessi capelli, gli stessi occhi e nessun elemento che possa distinguerle come un neo, una voglia o una qualsiasi altra cosa.

"Delia, perdonate il mio ritardo."

Conosco quella voce. È la stessa che mi ha fatto venire la pelle d'oca il giorno prima, solo che stavolta è vestito elegante, con una stola rossa dagli orli dorati sopra una tonaca bianca, il tutto fermato in vita da una cintura all'apparenza costosa. In mano ha la stessa sacca nera con cui gli vidi rubare la corona di rubini e, dalle fattezze dell'oggetto che si trova al suo interno, è probabilmente lo stesso per cui la moglie di Marzio sta piangendo disperata.

La ragazza sorride e gli mormora qualcosa. Non saluta né ringrazia l'oste prima di girarsi verso la strada, aspettando che il ragazzo la segua. Lui sta per farlo, ma quando mi vede nel locale con uno straccio sporco di vino tra le mani, si ferma. C'è qualcosa nel suo sguardo che cambia quando incontra il mio, qualcosa che non riesco a decifrare. Sarà perché conosco il suo segreto? Ha paura che lo dica in giro?

Torna in strada prima che io decida di importunarlo ancora.

Mi avvicino all'oste che li guarda andare via. "Chi sono?"

L'oste sembra irritato e la mano che poggia sul fianco non promette nulla di buono. Ha l'aria tesa di quando c'è qualcosa che non va. L'ho visto farlo quando dei clienti ubriachi marci hanno iniziato a litigare tra loro, o quando un commensale ci appella in malo modo nell'ordinarci di riempirgli il bicchiere. Qualsiasi uomo che osasse rivolgersi a noi dipendenti in questo modo, viene subito cacciato dal locale. Nessuna accezione.

"La donna è la figlia dell'Imperatore, Delia. L'altro è il suo promesso sposo. Un greco." Sputa l'ultima parola come se fosse veleno. "I greci non portano nulla di buono," aggiunge. "Non riesco a credere che il padre l'abbia venduta così. Ah, l'Imperatore ha davvero un debole per gli orientali." Sospira sonoramente.

Vorrei che mi desse altre informazioni ma, prima che possa chiedergliele, entra un cliente e l'oste è pronto a servirlo, dimenticandosi dell'episodio appena successo, recuperando l'espressione cordiale che i clienti amano vedere.

Il sole ha appena iniziato a tramontare e il locale a riempirsi della sua luce dorata quando Livia mi chiede di accendere le candele. Sono sparse in giro per la stanza, in candelabri appesi alle pareti e sui tavoli.

Al momento ci sono ancora poche persone: due uomini discutono di denaro di fronte a della zuppa, altri due non sembrano aver molta voglia di parlare, e un ragazzo poco più grande di me siede ad un tavolo solo soletto. Ha lasciato una scia di orme di terra e fango dietro di sé che probabilmente mi toccherà pulire a fine serata. Sorregge la testa bruna con una mano e sembra che si stia per addormentare. Ha gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta.

"Sveglia quel ragazzo, il suo cibo è pronto" mi dice Publia passandomi un piatto con dei piselli, polpette di carne e uova fritte. Ha un ottimo aspetto, spero che sarà così anche la mia cena.

Mi avvicino in silenzio al ragazzo e gli appoggio il piatto davanti con più rumore del necessario. Spalanca gli occhi e mi ringrazia.

"Scusa, sono stanco. Devo essermi appisolato."

"Succede, non ti preoccupare" lo rassicuro con un sorriso.

Prendo la brocca di vino e gli verso da bere mentre il suo sguardo si sofferma a lungo su di me.

"Come ti chiami?" Mi chiede e alla mia risposta reagisce con un: "Oh, non ho mai sentito questo nome prima d'ora, da dove vieni?"

Ignoro la domanda come se non l'avessi affatto sentita, facendogli dubitare che l'abbia posta davvero o se lo sia sognato. "Vedo che hai lavorato parecchio oggi" commento riferendomi alle orme di fango.

Sono diventata abile nel conversare con i clienti. La maggior parte di loro vuole solo essere ascoltata parlare della loro giornata. Probabilmente non hanno nessuno a casa che glielo chieda, e non mi dispiace sentire le loro storie.

Mi piacciono le storie, vivo di esse. Ascolterei e leggerei qualunque storia purché non sia noiosa, anche se poche lo sono e solo perché non riesco a capirle fino infondo. Mi appassiono a quelle in cui riesco ad immedesimarmi, in cui mi è più facile dare un consiglio. Altre volte non so proprio come rispondere, o perché non ho nulla da dire o perché vorrei solo urlare a quella persona di svegliarsi e prendere la propria vita in mano ma non trovo un modo cortese per formularlo.

"Sono un giardiniere" risponde come se quella semplice parola bastasse ad esprimere la fatica del suo lavoro. "Curo il giardino della villa dell'imperatore da ormai quattro anni. Quattro anni tranquilli. Poi è arrivata sua figlia. Non le va mai bene nulla. Mi ha fatto piantare e ripiantare fiori di tutti i colori perché nessuno di quelli le piaceva. In più quel suo uomo, Orfeo, non è in grado di consigliarle nulla. Alcuni uomini non sono fatti per prendersi cura di ciò che la dea Diana ci ha donato, eppure a loro è capitata la sorte migliore."

Orfeo. Ecco come si chiama quel ladro.

Il ragazzo morde una polpetta liberando lo stress che Delia gli ha procurato. Non dev'essere affatto facile aver a che fare con lei.
"Dimmi di più di loro. Delia e Orfeo. Da come ne parli sembrano essere... curiosi. Ma prima dimmi il tuo nome, non te l'ho ancora chiesto."

Accenna un sorriso. "Mi chiamo Artemone. E riguardo i due giovani, è difficile non sentir parlare d'altro che di loro alla villa. Ho saputo che Orfeo viene dalla Grecia, o da uno di quei paesi limitrofi. Ha chiesto in sposa Delia all'Imperatore solo qualche settimana fa. Dicono che abbia acconsentito immediatamente non appena ha visto i doni che gli ha portato. Di questi tempi non sguazzano nell'oro, o almeno non come una volta. E l'imperatore è molto parsimonioso e accumulatore, ogni singolo sesterzio ha un grande valore per lui. Essendo Delia la più piccola delle sue figlie e l'unica non maritata, ci ha riflettuto ben poco prima di sbarazzarsi anche di lei. Non dico che sia un cattivo padre, è così che funziona, ma poteva pensarci un po' di più prima di venderla ad un greco."
Che hanno questi romani contro i greci? Li descrivono come diavoli in persona.

"Emma, Publia ti vuole in cucina" mi dice Livia richiamandomi al lavoro.

"Scusami, devo andare" mi congedo con un sorriso di ringraziamento per le informazioni che mi ha fornito. Che strano nome che ha, però. Artemone. Sembra l'unione di 'Arte' e 'Demone', che strana combinazione. Però è carino.

Perdersi un giorno d'autunnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora