81- Epilogo

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12 Aprile 1865 – Appomatox Court House

La resa era stata firmata. Non una resa cattiva come ci si sarebbe potuti aspettare dopo una guerra così crudele, ma una piena di dignità e onore.

I due giganti, Grant e Lee, si erano incontrati il 9 aprile. L'Armata della Virginia era stata circondata, dopo otto giorni di furiosi combattimenti, e il generale confederato aveva deciso che era arrivato il momento di arrendersi. Non aveva più senso continuare: sarebbe stato un massacro inutile. Aveva fatto recapitare un dispaccio alle linee nordiste e dopo poche ore i due si erano ritrovati faccia a faccia.

Lee vestito di tutto punto, con la sua uniforme migliore, i capelli bianchi ben pettinati e la barba curata; Grant con una divisa da lavoro logora, portando come scusa l'urgenza dell'incontro che non gli aveva dato il tempo di cambiarsi, visto che i suoi effetti personali erano rimasti indietro durante il serrato inseguimento effettuato dall'Armata del Potomac.

Erano l'espressione di mondi contrastanti: da un lato la vecchia aristocrazia agraria del Sud, dall'altro la giovane nazione industrializzata e dinamica. I due generali sembravano incarnare le opposte concezioni di vita che si erano scontrate per quattro lunghi e sanguinosi anni. I vecchi tempi erano finiti, ora si apriva una nuova era in cui una giovane America sarebbe sorta, energica e potente.

Le condizioni di resa suggerite da Grant furono quanto mai generose: bisognava ricostruire gli Stati Uniti insieme, non aveva senso imporre una pace cartaginese.

L'ufficiale nordista propose che i Confederati deponessero le armi e sarebbero potuti tornare alle loro case come liberi cittadini, senza rappresaglie. Guardando il vecchio generale e la sua sciabola lucente, pensò che voleva risparmiargli l'umiliazione di consegnargliela e aggiunse che i graduati avrebbero potuto conservare le loro armi. 

Lee aveva sorriso: quel giovane generale conosceva le regole della cavalleria. Osò tentare di ottenere di più. Chiese di garantire delle razioni di cibo ai suoi uomini, affamati dalla scarsità dei viveri, e lasciare i cavalli ai combattenti dell'artiglieria e della cavalleria. Gli stati confederati non avevano fornito gli animali ai loro soldati e non sarebbe stato giusto requisirli come proprietà di stato, aveva detto.

Grant aveva acconsentito: quei cavalli sarebbero stati utili per i lavori nei campi in vista del duro inverno che avrebbero dovuto affrontare gli stati del Sud. La loro terra era stata devastata profondamente dai combattimenti.

La resa fu stilata e firmata e, quando i due generali si separarono, Grant si era levato il cappello in segno di rispetto a quel vecchio gigante, imitato dai suoi ufficiali.

Quel giorno era prevista la restituzione delle armi e delle bandiere. Le truppe erano state passate in rassegna e le armi in loro possesso controllate, non restava che concludere in modo formale la consegna.

Questa avvenne in maniera spettacolare: i ventottomila veterani sopravvissuti dell'Armata della Virginia si disposero in colonna sulla riva nord dell'Appomatox, con gli ufficiali a cavallo e le bandiere in testa ai reggimenti, e marciarono fieri e compatti fino al villaggio di Appomatox Court House.

Là trovarono una divisione unionista ad accoglierli, guidata da Chamberlain, con la bandiera degli Stati Uniti svolazzante. Mentre loro sfilavano a ritmo di marcia, senza trombe o tamburi ad accompagnare quella maestosa ultima parata, d'improvviso i Federali si misero sull'attenti presentando le armi, in segno di profondo rispetto.

La lunga colonna infine si arrestò, tra due ali di soldati in blu ancora in presentat-arm, solenni e seri nel momento che tanto avevano atteso. Un comando e i Confederati posarono i fucili a terra, un altro comando e le bandiere della Confederazione si inchinarono e si piegarono al suolo. Solo la bandiera dell'Unione rimase a sventolare sul colle.

Era finita.

Jonathan però non aveva partecipato alla cerimonia, gliel'avevano raccontata altri presenti.

In quelle ore del mattino si era recato alla tomba di Robert per pregare e salutarlo prima della partenza che sarebbe avvenuta da lì a poco. Nella tasca aveva ritrovato la lettera di Emily appallottolata e con cura aveva lisciato la carta, pensando che doveva compiere quell'ultimo gesto prima di andarsene.

Si avvicinò alla tomba e scavò un po' nella terra su cui già avevano preso a spuntare i primi germogli, infilò la lettera nel buco e la ricoprì. Sospirò tenendo ancora qualche istante la mano appoggiata al cumulo.

«Spero che tu possa leggerla da lassù ed essere felice» disse come se lui potesse sentirlo. «E non preoccuparti per Sabrina: ci sono io.» 

Polvere alla polvereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora