Alla fine era successo: il 12 aprile 1861 i secessionisti avevano attaccato Fort Sumter nella Carolina del Nord, dando di fatto inizio alla guerra tanto temuta. Adesso bisognava riorganizzare l'esercito, capire chi degli ufficiali in servizio si sarebbe schierato dalla parte dell'Unione, chi dalla parte della Confederazione, contare armi, munizioni, uomini, decidere come rimpolpare le truppe esigue.
Il capitano Becker era stato promosso a maggiore e Jonathan tirò un sospiro di sollievo: era felice per il padre, ma soprattutto ora avrebbe avuto un altro capitano con cui confrontarsi e la prima cosa che fece fu di chiedere una licenza. Nel trambusto di quei giorni il suo nuovo superiore gliela concesse, senza riflettere sul motivo per il quale al ragazzo erano state negate da settimane.
Jonathan si sbrigò a darsi una ripulita e fiondarsi in città. Aveva fatto pervenire a Lizzie un biglietto tramite Robert con cui si scusava per la reiterata assenza, ma ora doveva assolutamente vederla.
Entrò nel saloon e ordinò un whisky andando a sedersi in disparte. Osservò gli avventori e percepì la nuova atmosfera che si respirava al dilagare della notizia della guerra; anche se lì erano nel Kansas, molto distanti dai recenti avvenimenti. Gli uomini parlottavano tra loro in modo concitato, l'abituale sonnolenza sembrava un lontano ricordo anche tra i giocatori d'azzardo che tra una mano e l'altra discutevano animatamente e le ragazze, di solito gaie e sorridenti, parevano allarmate.
Lizzie lo sorprese appoggiandosi sulle sue spalle.
«Era ora, mio bel soldato. Cosa ti porta fin qui? Venti di guerra o la mia mancanza?» gli sussurrò all'orecchio, stuzzicandogli il lobo con il suo fiato caldo.
Il ragazzo non rispose e, continuando a fissare davanti a sé, buttò giù tutto d'un fiato il liquore.
«Portamene un altro» si limitò a dire.
Lizzie fece spallucce e si avviò al bancone per afferrare la bottiglia del whisky. Tornò sui suoi passi e gli riempì il bicchiere, fissandolo negli occhi. Jonathan non colse l'invito e iniziò a sorseggiare il liquore in silenzio inducendo la ragazza a riprendere il suo lavoro.
Non voleva parlarle e lasciare che la sua magia lo stregasse, non ancora. Le parole di sua sorella avevano scavato nella sua mente per giorni e giorni, avvelenandogli l'anima, e adesso era lì per cercare di vedere quanto ci fosse di vero.
Lizzie volteggiava in giro leggiadra come una farfalla esaudendo i desideri degli avventori. Si avvicinava appena più del consentito, permettendo di cingerla con un braccio intorno al vitino sottile e attirarla accanto a loro per poi sgusciare via fluida, non prima di aver solleticato le loro barbe con i riccioli biondi. A volte si chinava a ritirare bicchieri piegandosi quel tanto che bastava per offrire fugaci visioni del suo decolleté, altre appoggiava le mani delicate sulle spalle degli uomini regalando una leggera carezza e un sorriso ammiccante.
Il giovane osservava tutto ciò con crescente nervosismo; sapeva benissimo quale fosse il compito della sua ragazza: doveva mettere a loro agio gli avventori e indurli a ordinare senza sosta, illudendoli con la speranza della sua compagnia. Non era una prostituta! Ma le mani che quegli uomini allungavano di continuo, dopo i commenti sarcastici della sorella, alimentavano la sua rabbia e doveva dominarsi per non intervenire e finire in mezzo a una rissa.
Diede fondo a quanto rimaneva nel bicchiere in un sol colpo e si alzò, deciso a porre fine ai suoi dubbi. Si avvicinò alla ragazza e la prese per un braccio, con una stretta giusto un tantino troppo decisa.
«Devo parlarti» le disse. Lizzie gli piantò due occhiacci offesi addosso e poi spostò lo sguardo in modo eloquente sulla mano che la costringeva.
Jonathan la ignorò. «Andiamo fuori» propose tirandola e lei decise di lasciarlo fare, seguendolo docile.
Uscirono sul vicolo laterale da una porta secondaria e appena fuori la ragazza si liberò dalla presa con uno strattone.
«Che vuoi? Prima non mi saluti nemmeno e adesso mi trascini nel vicolo?» lo aggredì con il suo solito piglio deciso.
«Io e te dobbiamo parlare» rispose serio.
«Tu sei brillo» sibilò.
«Non abbastanza.»
Lizzie si chiese cosa intendesse con quell'ultima affermazione e diventò inquieta, ma decise di giocare d'anticipo.
«Adesso sto lavorando, se vuoi puoi aspettarmi di sopra e poi vedremo se quanto hai bevuto è bastato per scaldarti.»
«Non scherzare. Piuttosto dimmi: quando hai incontrato mia sorella?»
La ragazza rimase interdetta e Jonathan seppe di aver colto nel segno. Aveva solo tirato a indovinare, ma era evidente che Lizzie aveva conosciuto Sabrina.
«Tua sorella? Cosa c'entra adesso tua sorella?» Si riprese dalla sorpresa.
«C'entra, visto che è per causa vostra che me ne sono stato in quel forte senza uno straccio di licenza per tutto questo tempo.»
«Non me lo ricordo!» rispose con aria di sfida.
Jonathan l'afferrò per le spalle e la spinse con foga contro il muro strappandole un piccolo gemito.
«Sono stufo dei vostri giochetti da femmine! Rispondimi.»
«Non lo so! Un po' di tempo fa... era nel saloon e a un certo punto mi ha avvicinato» balbettò spaventata.
«E cosa ti ha detto?»
Lizzie arrossì violentemente.
«Non sono affari tuoi!» esclamò cercando di divincolarsi dalla presa, ma lui la sbatté di nuovo contro la parete.
«Potrei mettermi a urlare...» lo minacciò tra i denti.
«Non ci pensare nemmeno. Rispondimi e falla finita!» replicò deciso.
Qualcosa nello sguardo di lui la convinse a capitolare.
«Che avrei dovuto mettermi un abito più accollato per sperare che tu mi presentassi a tuo padre, o una roba del genere...» sussurrò abbassando gli occhi.
Jonathan lasciò la presa imprecando e cominciò a camminare furioso avanti e indietro parlottando tra sé, mentre Lizzie si massaggiava le braccia piena di vergogna e rabbia. Quella ragazzina l'aveva offesa con tanta abilità che non avrebbe mai dimenticato quel pomeriggio.
«Perché non me l'hai raccontato?» l'aggredì dopo qualche minuto senza ottenere risposta: lei si limitava a fissarlo arrabbiata.
«Se l'avessi saputo, avrei provveduto io a rimettere a posto quella piccola serpe. Invece mi ha colto alla sprovvista e abbiamo finito per litigare come due ragazzini. Ho fatto una pessima impressione a mio padre! Al diavolo!» sbottò.
«Cosa dovevo dirti? Di aver incontrato tua sorella e che mi aveva tolto ogni dignità con una sola frase? Secondo te mi sono divertita? Preferivo non lo sapessi...»
«Tu non dovevi darle retta e riferire a me! Quando vuole sa essere davvero perfida e...»
«Ha semplicemente ragione» lo interruppe con gli occhi che le si inumidivano per la vergogna. «O davvero vuoi darmi a bere che mi avresti presentato a tuo padre, prima o poi?»
Lui fece per ribattere e poi rimase zitto. Non c'era null'altro da aggiungere: sapevano entrambi che la loro relazione non aveva futuro. Rimasero a fissarsi per qualche istante carico di tensione. Se sua sorella non avesse aperto il vaso di Pandora forse avrebbero potuto continuare a stare insieme, ma così era umiliante: le circostanze rendevano lui un poco di buono e lei una prostituta, né più né meno. Lei lo sapeva: per questo non gli aveva raccontato l'episodio. Quella ragazzina aveva tolto ogni dignità al loro rapporto, come se ne avesse mai avuta in realtà. Ma dopo averlo ammesso non si poteva più fingere che non fosse vero.
Jonathan si ritrasse scambiando uno sguardo addolorato con quella ragazza e si allontanò a grandi passi. Non poteva più continuare a prenderla in giro.
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Polvere alla polvere
Historical FictionUtah 1854. Due fratelli decidono di lasciare la sicurezza della casa materna per seguire il padre, capitano dell'esercito. Giovani e scanzonati, alle prese con mille difficoltà per adattarsi alla vita militare mentre inseguono i loro sogni e cercano...