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Un altro venerdì era giunto, e con esso anche una seduta dal dottor Choi, che ormai era una cosa di routine da due mesi a quella parte.
Jimin notava lentamente qualche progresso, ma per un passo in avanti ce n'erano due indietro: era come se fosse bloccato dallo star meglio.

Era propio di questo che stavano parlando i due, in quella serata buia e ormai fredda.

«Può elaborare quest'ultimo pensiero, Jimin? Cosa intende quando dice "affogare"?»

Il modello annuì, cercando le parole più adatte: «Ero in cucina, e stavo preparando la cena, solo per me visto che ero da solo. Ad un tratto mi è scivolata dalle mani una ciotola di vetro, e ovviamente si è rotta, non lo so, ero distratto. Mi sono sentito assente per qualche istante, pensavo solamente a quando affilati fossero quei cocci, e senza pensarci li ho raccolti a mani nude, quasi come se ne fossi stato attratto, non so se ha senso».

«Continui pure, parlarne le farà bene» disse il
Dottore, continuando a scrivere sul suo quadernino dalla copertina di pelle.

Jimin aveva notato questa cosa: ogni volta che diceva qualcosa di molto brutto o di molto bello, l'uomo lo trascriveva nel suo blocco di appunti. Sapeva che non ci fosse solo quello, però, era certo che, accanto alle sue stesse parole, ci fosse anche una constatazione medica, un parere, magari un'ipotesi.

La cosa lo intimoriva ogni volta, più che altro perché, nei meandri della sua mente, il terrore che ciò che raccontava in sede privata potesse essere reso pubblico rimaneva. Ogni volta si costringeva a ricordarsi che il dottor Choi fosse un professionista, uno psichiatra che era vincolato alla privacy, e così si tranquillizzava.

Fu proprio per questo che continuò con il suo discorso, che in realtà non era nulla se un racconto della sera prima.

«Ho iniziato a sentire un dolore lancinante, e mi ricordo bene di aver iniziato a sanguinare, ma poi... non so, non riuscivo a smettere di tenerli in mano, li ho ributtati a terra solo quando la suoneria del telefono è partita, e mi sono reso conto di cosa stessi facendo. Non capisco perché sia successo, io non ero davvero io: io non mi ricordo perché li ho stritolati» delle piccole lacrime iniziarono a formarsi sui suoi occhi nel momento in cui si guardò i palmi bendati.

L'altro uomo annuì, guardandolo in silenzio per un attimo «E chi l'ha chiamata?».

«Taehyung, voleva invitarmi a casa loro per passare la serata; io ho cercato di non fargli sentire che stessi male, ma lui l'ha capito, e si è precipitato da me»

«E poi cosa avete fatto?» continuava a scrivere, ormai aveva riempito pagine intere, pagine per le quali qualsiasi giornalista avrebbe ucciso, pur di ottenerle.

Il biondo si morse leggermente il labbro, cercando di non scoppiare piangere, fallendo: «Io ho cercato di medicarmi ma faceva troppo male, non volevo che Tae si preoccupasse e che mi vedesse in quello stato, ha già i suoi problemi a cui di pensare. Poi, però, è arrivato e mi ha visto in quello stato, prima mi ha calmato e poi ha insistito per andare in ospedale, penso avesse paura».

«Paura per lei, Jimin?»

«Paura di me, paura che ciò che ho fatto fosse intenzionale, paura che volessi fare di peggio, o paura che se non avesse chiamato non mi avrebbe più trovato. Taehyung è sempre stato un po' paranoico, non è che mi sia tagliato le vene di proposito o cose simili, però ho visto il suo sguardo: sembrava stesse camminando sui gusci d'uovo, sembrava non sapere cosa poter dire e cosa no. La nostra amicizia non è mai stata così, ho il terrore che inizi a cambiare anche questo, per colpa mia» argomentò, come gli era stato chiesto, ma poi pianse disperatamente, macchiando di lacrime le fasciature e le dita: «Perché mi sta succedendo questo? Perché adesso? Cosa c'è che non va in me?!» chiese nuovamente.

𝘚𝘦𝘦𝘴𝘢𝘸  || 𝘠𝘰𝘰𝘯𝘮𝘪𝘯Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora