Forte come Leonida e curioso come Ulisse

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Fin da piccolo, non mi sono mai trovato bene in mezzo a tante persone. 

Eppure, ho passato metà della mia vita soffocato da braccia che sfioravano le mie, dal sole afoso che scartavetrava la mia pelle scura e il sudore nauseabondo che inaspriva l'aria che a fatica respiravo. 

All'epoca, io ero solo un bambino che vomitava conati di terrore a ogni onda, a ogni uomo che toccava il pelo increspato dell'acqua, si schiantava su di esso, si agitava come uno squalo in gabbia e poi spariva sotto la cresta impetuosa del mare. Urla, richieste d'aiuto, il cielo in tempesta, il mare che appariva un vortice pronto ad afferrarti per i polmoni con i suoi artigli e risucchiarti sotto strati invisibili di sabbia e sassi. 

Io ero solo un bambino quando in Nigeria contavo a una a una le conchiglie sulla spiaggia e cercavo la più colorata da donare a mia madre. 

Era così bella mia madre. 

Di lei ricordo le mani piccole e calde, i denti bianchi e le labbra scure che mi sorridevano, i capelli lunghi che le accarezzavano il petto su cui la sera mi addormentavo, cullato dalla voce che riportava alla mia mente miti antichi e l'eco di personaggi leggendari. 

Ricordo che c'era un generale tanto valoroso da combattere insieme ad un esercito di trecento uomini contro il triplo dei soldati. Aveva un nome strano, simile a un leone. Se mai potessi scegliere un nome che non fosse il mio, penso proprio che mi chiamerei come il mitico e grande Leonida. Un altro, invece, affrontò un viaggio lungo vent'anni per ritornare dall'amata moglie Penelope e dal figlio Telemaco. 

Mi piaceva pensare che anche il mio papà stesse, in realtà, affrontando mille peripezie per ritornare da me e che avrei soltanto dovuto aspettare di diventare grande. Lui sarebbe tornato, sì, lo avrebbe fatto. Ma vent'anni erano proprio tanti, pensai che mi sarei dovuto imbarcare per andare a cercarlo, per riportarlo a casa e salvare la mia mamma come il giovane figlio di Ulisse. 

Lei era d'accordo, voleva che salissi su quel pezzo di plastica barcollante tra le onde, insieme ad altri cento uomini valorosi e coraggiosi pronti a morire per i propri ideali. 

Io ero solo un bambino quando sulla barca pensai di poter essere come Cristoforo Colombo e scoprire un nuovo paese, magari quello nel quale si trovava mio padre, vittima del potere della maga Circe. Invece, l'unica cosa che scoprimmo era il sapore del sale che ci bagnava disperatamente le labbra spaccate da croste di sangue, l'odore persistente della morte che ci raggelava le ossa e il cuore quasi immobile nel petto scarno. 

L'umile capitano della barca che non vedeva l'ora di urlare "terra in vista" come i pirati e i marinai, ogni tanto mi lanciava uno sguardo, nelle notte buie e fredde invece si sedeva affianco a me, nello spazio ristretto in cui ci era consentito muoverci e mi parlava. 

Il paese che avremmo scoperto si chiamava Italia, che secondo la parola greca "Aitalià" significava "terra infuocata". E noi il fuoco sentivamo di averlo dentro, lo avevamo visto bruciare e spegnersi negli occhi di chi non ce l'aveva fatta. 

Mi raccontava del fatto che suo nonno avesse origini italiane, che aveva passato la sua giovinezza proprio lì e che aveva vissuto una vita degna di essere chiamata come tale. Ma la cosa più straordinaria che mi rivelò, con occhi brillanti di vivida speranza, fu di un posto meraviglioso nel quale tanti bambini e ragazzi della stessa età si incontravano tutti i giorni, sedevano vicini e ascoltavano una persona che spiegava loro di tutto, anche miti antichi e personaggi leggendari, proprio come la voce calda di mia madre. C'erano tantissimi numeri e forme strane da imparare, lettere nuove da scrivere, luoghi meravigliosi da studiare, la storia di popoli antichi da apprendere e opere d'arte da contemplare. 

Il Capitano era stato in questo posto a dir poco incredibile. Si chiamava scuola e, un giorno, avrebbe voluto tanto tornarci. Permettere a suo figlio, un ragazzino poco più grande di me a cui stringeva la mano, di poterci andare e di essere davvero salvato da una vita di miseria, senza un'identità, abbandonato nelle tenebre dell'ignoranza e dell'ignoto, nell'oscurità più buia persino dell'abisso dell'oceano. 

La guerra uccide, gli uomini sanno essere malvagi, il mare è imprevedibilmente bello e dannato, in tutto ciò l'ignoranza è un insulto alla mente umana, è un graffio incoercibile che smembra il cervello, segna le nostre anime e condanna le nostre vite.

"La cultura, bambino mio, la cultura è importante". 

Ecco, adesso ricordo anche queste parole, rimbombano nella mia testa con la voce calda di mia madre.

"Signore, appena arriviamo in Italia porterebbe anche me alla scuola?" 

Una domanda innocua, un desiderio che prendeva forma nel mio cuore, che esaltava i miei sensi, riscaldava le mie membra ghiacciate e scacciava i conati di terrore. 

Lui sorrise, e il suo sorriso fu l'ultima cosa che ricordo di lui. 

Forse, l'ultimo sorriso che mi dedicò. 

Lui andò via, credeva fermamente nel potere della cultura, ma non era bastato ad evitare che il mare mietesse un'altra povera e innocente anima umana. 

Io, invece, ero solo un bambino quando sbarcai a largo e come il naufrago Ulisse mi aspettavo di essere accolto dalla fanciulla Nausicaa. 

Non accadde nulla del genere all'inizio, forse ero approdato sull'isola sbagliata. 

Per fortuna, però, non tutti gli uomini sono malvagi. 

Una donna, che aveva gli occhi uguali a quelli di mia madre, mi prese per mano e curò le mie ferite. Mi diede anche una carezza. E, per un attimo, mi sembrò di essere un passo più vicino alla luce. 

Mi chiamo Adham, oggi ho sedici anni, ne sono passati cinque da allora. 

Vivo in Italia, sento il fuoco dentro, e ho dovuto aspettare tanto per questo momento, forse troppo. Ma adesso sono qui, insieme al figlio del capitano. 

Il suono improvviso di un oggettino metallico mi distoglie dai miei pensieri. È la campanella. 

Ci sono tante persone qui, il sole è caldo, le mani mi tremano, ma stavolta non è un barcone. 

Quel giorno io e il mio amico abbiamo avuto salva la vita, adesso la cultura salverà il nostro futuro. 

Ci guardiamo, sorridiamo e, a testa alta, entriamo a scuola. 

Grazie per tutto mamma. 

Adesso, mi sento forte come Leonida e curioso come Ulisse.



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