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FINALE

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Nicolas stava studiando l'uomo che gli aveva rubato una sigaretta dal pacchetto senza che neanche gliel'avesse offerta.
Prese un respiro e sbuffò una nuvola di fumo denso e grigio.
"Cosa vuoi?"
"Fare una chiacchierata con mio nipote." Sottolineò quella parola con uno strano accento.
"Non avrai altri soldi da me, zio. Con te ho chiuso, penso di essere stato abbastanza chiaro l'ultima volta che ci siamo visti."
"Oh e te la sei cavata benissimo vedo. Nelle mani di una famiglia mafiosa, e frequentando il futuro leader del più grande cartello criminale spagnolo, vendendo il tuo corpo per lui."
"Che ne..." volle dire prima di essere interrotto, con un'aria crucciata.
"Ti stanno manipolando, figliolo." Aggiunse prendendo un altro respiro di sigaretta. Si toccò poi il taschino della camicia e prese un foglietto di carta rigida bianco e lo passò in mano al ragazzo, sedendosi vicino a lui.
Il moro afferrò incerto quella carta e squadrava lo zio per cercare di capire che intenzioni avesse. Era carta molto rigida, sembrava una fotografia piegata. La aprì e tutto quello che riuscì a fare era solo spalancare gli occhi.
"Non sei per niente cambiato, a quanto pare. Sempre lo stesso ingenuo ragazzino." Commentò lui notando la sua reazione di stupore. "Pensi che valga la pena entrare in quella famiglia? Io non credo proprio."
"Che cosa significa questa foto?"
"Significa ciò che vedi. Tu. Tuo padre. Tua madre che tiene in braccio te. Ed il signor Serrano." Si limitò a dire alzandosi poi in piedi per spegnere la sigaretta gettandola a terra e schiacciandola con la suola.
Nik si avvicinò a lui.
"Che cosa vuoi da me?"
"Metterti in guardia da loro, ragazzino. Mentono." Sillabò con tono asciutto. Stava per andarsene via quando Nik lo chiamò con voce incerta.
"Aspetta." Diceva lui. Lo zio fece un ghigno. "Chi sono queste persone allora? Cosa ci facevano la mamma ed il papà con il signor Serrano in questa foto?"
"Perché non lo chiedi direttamente a lui? Ah... non te lo ha ancora detto allora. Come non ti ha detto del pagamento della casa dei tuoi e di come ti abbia manipolato per farti entrare nelle grazie sue e di suo figlio."
"Dacci un taglio e rispondi alla domanda."
Lo zio si avvicinò al ragazzo e gli sorrise. Gli sistemò la camicia sulle spalle, stirandogli le rigature con le mani e poi gli prese il volto tra le mani lanciandogli un finto sguardo compassionevole. Gli diede due schiaffetti sulla guancia destra. Rubò un'altra sigaretta dalla tasca del pantalone del ragazzo, lanciando il pacchetto sul tavolino dove avevano cenato e si allontanò.
"Se vuoi altre informazioni, presentati con una bella somma di denaro. Trecento mila basteranno. E ti racconterò tutta la storia, dall'inizio, alla fine. Avrai la tua verità."
"Alla fine, neanche tu sei cambiato, sei lo stesso stronzo sanguisuga che eri come quando eravamo piccoli, ossessionato dal denaro e con i debiti fino al collo, vero?"
"Trecento. E ne riparleremo." E sparì dietro al vicoletto dal quale era comparso.


Diana era sdraiata sul letto, con un semplice lenzuolo bianco che le copriva il seno e il corpo, usando il braccio di Roberto come cuscino. Giocava con la grande mano di lui facendo scorrere le dita lungo le sue.
"Lo sapevo sin dal principio che non eri normale, come ragazzo." Spezzò il silenzio lei, guardando nel vuoto e continuando a disegnare sulla mano di lui, che voltò lentamente lo sguardo verso di lei, per studiarne il profilo.
"Ma che eri come me." Aggiunse. "Non so se possiamo definirci simili." Parlò lui rispondendo al suo pensiero. "Io vivo solo il momento. Qualunque cosa provo, è tutto ciò a cui penso."
"E come sei sopravvissuto in questo mondo, fino ad ora? Con questa mentalità così... naïve?"
Lui spostò lo sguardo al soffitto.
"Non sono una brava persona, se è questo quello che intendi."
"Non ho mai inteso questo, sto solo dicendo che sembri un idiota. Sai, uno di quei tipi fedeli che non vede la realtà dei fatti perché accecato dalla fedeltà di ciò che dice il padrone."
"Beh, non sono così." Fece lui. "Ho i miei pensieri. Le mie parole, i miei sentimenti. E quelli nessuno me li può comandare." Si espresse sentendo la confusione annebbiare la sua mente.
"Ho fame." Disse ad un tratto lui, rimettendosi seduto, muovendo le catene che ancora non lo avevano lasciato neanche un momento. La ragazza si stiracchiò e sorrise. Poi si rimise in piedi, rivestendosi. "Vado a prepararti qualcosa di buono da mangiare." Parlò con un tono pacato. Sembrava quasi una ragazza normale ora.
Se non fosse che lui era rinchiuso lì. Ammanettato, e legato in quella stanza. Privato della sua libertà, e adesso, anche della sua dignità dopo esserci andato a letto.
Avrebbe potuto approfittare per scappare quando lei era andata a seppellire il suo animale, e invece no. Si era fatto fottere dalle emozioni. Si era fatto fottere da lei.
Fu quando udì i suoi passi dissolversi che volle lanciare un grido di esasperazione. Si sentiva distrutto, affranto, ma soprattutto frammentato. Come se avesse perso una parte di sé, e non fosse più in grado di riconoscersi. Come aveva potuto lasciarsi andare così tanto? Farsi degradare ed umiliare così tanto da una persona per poi rivelare veramente chi era?
Ed ecco che le parole di suo padre, che pensava di non aver sentito per anni, ora riecheggiavano nella sua testa. "Tu sei una nullità." Si disse ad alta voce, guardando il suo riflesso allo specchio presente sul mobile di fronte al letto.
Era sicuro di aver ucciso quella voce nell'esatto momento in cui aveva privato della vita a suo padre. E invece no. Lui era lì. Che lo guardava e lo giudicava dallo specchio e ora lo stava anche deridendo. Forse non l'aveva mai sconfitto, forse la sua voce era sempre stata presente.
Aveva ragione: lui si sentiva vuoto e privo di senso. Il cuore scalpitava nel petto, e all'improvviso si sentì soffocare come se in quello stanzino non ci fosse abbastanza aria.
Provò a mantenere il controllo, tenendo a bada la nausea ed il giramento di testa.
"No." Si disse alzandosi in piedi per guardarsi allo specchio. "Lei non mi piace." Disse con tono di voce tranquillo.
"NON MI PIACE." Provò ad essere più convincente, ma la sua fronte si corrugò e una lacrima rigò il suo viso. "Allora perché non la rifiuti?" mormorò quasi in lacrime, tra sé e sé.
Lei lo aveva svuotato di sé stesso. Lo aveva privato di senso.
Perché è così che ci si sente quando si ha un crollo nervoso, a seguito di anni di abusi mentali: svuotati di senso, dove nulla ha più una logica. Vittima della persona abusiva non perché si è troppo deboli per poterla combattere, perché Roberto sapeva che poteva liberarsi di Diana da quando aveva recuperato le forze. Non lo aveva fatto perché si stava rendendo conto che effettivamente non poteva vivere senza una persona che lo trattasse così.
Stare con Diana aveva risvegliato in lui qualcosa, aveva scalfito la superficie da uomo freddo e distaccato che era, tutto dedito al lavoro e alla famiglia Serrano. E quando si rese conto che Diana non era nient'altro che un'abusatrice come suo padre, la cosa lo gettò in uno sconforto, e in un abisso, dal quale pensava di essersi liberato anni prima.
Quel malessere ora lo logorava, facendogli perdere il senso del tempo e anche di sé stesso. Doveva alzarsi e reagire. Doveva tornare a casa, per proteggere Guillermo e rivestire i panni della sua guardia del corpo.
Diana entrò cautamente nella stanza. Aveva un labbro gonfio, e la guancia rossa. Aveva sentito distrattamente degli schianti, quelli che parvero minuti o forse ore prima, probabilmente erano i piatti e le pentole che si erano rovesciati sul pavimento. Poi delle grida di un uomo, Alvaro, che aveva visto la figlia preparare del cibo al prigioniero.
"Che cazzo stai facendo?" le disse sbattendo per l'aria il piatto di cibo che aveva preparato con una certa passione e accuratezza. "Sei una delusione." Sbottò lui dandole un ceffone sulla faccia, ogni volta sempre più forte e con sempre più crudeltà. "Ti ho preparato da mangiare." Parlò mogia lei dandogli il pasto impiattato male.
Non doveva sembrare così il piatto, pensò lui prima di afferrarlo.
"È passato di qui, vero?" domandò. "Mangia." Suonò quasi come un ordine detto con un tono singhiozzante.
"Mio dio la tua faccia..."
"Fatti gli affari tuoi!" gridò lei con le lacrime agli occhi. "Per favore." Supplicò poi lei in tono remissivo, guardando il vuoto.
Roberto iniziò a provare rabbia per come lei veniva trattata dal padre, rivedendo una scena molto familiare alla quale lei, però, poteva sfuggire.
"Arrenditi a questa battaglia inutile. Entra nelle grazie di tuo zio, vedrai che capirà e ti accoglierà a braccia aperte. Il signor Serrano non è una cattiva persona."
"Ah no? E di chi è la colpa se la mia vita è così?" lo interrogò lei guardando il ragazzo negli occhi.
"Tua." Rispose semplicemente.
Lei guardò di nuovo nel vuoto sentendo quella parola rimbombargli in loop nella testa, e poi sbottò dandogli uno schiaffo. Tirò poi le catene delle braccia con una carrucola sul soffitto, accorciandone così tanto la lunghezza dal costringerlo di nuovo a stare in piedi. Prese poi una mazza e si avvicinò a lui con modo minaccioso pronta a colpirlo come aveva fatto nei giorni precedenti.
"Non ti permettere di mancarmi di rispetto solo perché abbiamo scopato."
Lui provò a pararsi. "Ricordati che tu sei solo il mio schiavetto personale, essere inutile." Aggiunse con cattiveria, tornando ad essere la vecchia Diana.
"E allora uccidimi." Le urlò contro. "O non hai le palle per farlo?" inveì desiderando veramente di voler abbracciare il sonno eterno così che potesse scappare da quell'abisso nero e profondo nel quale era caduto.
Lei prese un coltello dalla tasca e lo puntò alla gola. "Vuoi morire?" chiese con gli occhi iniettati di sangue e la mascella serrata per la rabbia.
"Sì." Sillabò lui con voce spezzata. Lei si bloccò incerta di non aver capito bene le intenzioni di lui e poi negò col capo. "Non crederai di farmi pietà..."
"No." Disse afferrandole le mani e puntando il coltello con forza alla propria gola. "Uccidimi Diana. Fallo." Lo scongiurò. Lei trattenne con forza la presa di lui, cercando di togliere il coltello dal suo collo.
"Voglio morire." Aggiunse. "Non ho più niente ormai. Neanche più la dignità di un essere umano!" esclamò allentando la presa. Diana iniziò a spaventarsi. Non aveva alcuna intenzione di ucciderlo, e vedere quel ragazzo, che fino a qualche secondo prima aveva subito le peggiori torture, desiderare la morte era qualcosa di spaventoso.
"Sono una nullità." Disse con la voce di suo padre, che lo stava proprio guardando ora dallo specchio alle spalle di Diana. "Non sono mai valso nulla." Disse ora con voce robotica come se fosse caduto in una sorta di catalessi.
"Non riesco più a combatterla questa voce, Diana. Sono stanco. Non posso accettarmi per quello che sono, non riesco ad accettare tutti i sacrifici che ho fatto. Sono vuoto, capisci cosa significa? Vuoto." Le spiegò con una lacrima che le rigò il volto.
"Uccidimi." Disse prendendole gentilmente la mano con il coltello e puntandosela lentamente sulla pelle.

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