27. Blackout

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L'area esterna al Kitz era avvolta dal buio della notte. La mia giacca e i miei pantaloni neri si confondevano con l'asfalto scuro. Il mio vecchio marsupio grigio pesava sui miei fianchi. Senza gli occhiali da sole uno spiraglio della minima luce proveniente dai lampioni della strada vicina mi aiutava a direzionarmi, ma non ne avevo davvero bisogno.

Mi era bastato compilare un documento all'ufficio urbanistico per ottenere le mappe dettagliate del posto, e dopo avevo studiato la planimetria dell'edificio e tutto quello che ci stava attorno con attenzione maniacale.

Sapevo quanti passi mi avrebbero portato al quadro elettrico principale.

Avevo iniziato ad ideare quel piano la sera stessa in cui Dotty mi aveva chiamato. La mia cara Dotty... con la sua meravigliosa abitudine di parlare troppo. Dopo avermi chiesto perché diavolo era stato la segreteria scolastica ad avvisare che stavo interrompendo il tirocinio, si era accidentalmente dilungata sul caso di Charlie, e da cosa tira cosa...

A quanto pareva, Jodi si sarebbe recato a Los Angeles nel weekend. Le fonti della polizia erano affidabili, seguivano i suoi spostamenti notte e giorno, sapevano a che ora prendeva il caffè la mattina e come si chiamava l'uomo che gli lavava l'auto. E sapevano che tra sabato e domenica la banda dei draghi di Norgree e la banda dei Latin Three di Los Angeles si sarebbero incontrati per parlare d'affari all'ombra della grande insegna di Hollywood.

Dopo quella chiamata avevo avuto solo un giorno per prepararmi, perciò non avevo perso tempo.

Non avevo intenzione di rendere la mia testimonianza alla polizia come prova, non potevo tradire la promessa fatta a Casper, ma non sarei rimasto fermo a guardare Cas salire su quel palco e firmare la sua condanna.

Dovevo fermare quella follia.

Non c'era neppure un fruscio nell'aria. Non ero tanto ingenuo da pensare che il nido di Jodi fosse completamente scoperto, anche se il re si era certamente portato diverse guardie appresso per la sua missione fuori città, sapevo comunque di dovermi aspettare qualcuno a sorvegliare il posto. 

Perciò evitai il lato dell'edificio a cui si affacciava la porta principale, e continuai nell'oscurità.

Dovevano mancare pochi passi. Allungai le dita. 

Tenevo le suole delle scarpe vicine al terreno, senza trascinarle, ma senza mai sollevarle troppo, per evitare di inciampare in ostacoli imprevisti. 

Le punte delle mie dita coperte dai guanti incontrarono metallo. L'impatto produsse un minuscolo tintinnio che mi fece sussultare. Calma, Benjamin. Sai cosa fare.

Cominciai a tastare la porta sbarrata che celava il cuore pulsante dell'energia dell'edificio. Sentii la forma inconfondibile di una maniglia e l'abbassai lentamente, ascoltando il leggero scricchiolio del metallo. 

Avevo davanti a me il nero assoluto. Avevo portato una torcia in caso di emergenza, ma accenderla avrebbe significato rischiare di attirare qualcuno. 

Non ho bisogno di luce. 

Mi ersi più dritto. 

Ero nato cieco. Conoscevo l'oscurità più di qualunque vedente; era il momento di smettere di averne paura e sfruttarla a mio vantaggio. 

Lasciai che le mie mani esplorassero il quadro elettrico, a partire dalla cornice invasa di ragnatele, fino ai fili e i dispositivi di interruzione. Mentre tenevo una mano sui cavi di alimentazione, recuperai il tronchese nel mio marsupio.

Alzai lo sguardo nella direzione in cui avrebbero dovuto trovarsi le finestre dell'edificio. Almeno una luce doveva essere accesa, perché riuscivo a vedere un pallino giallo sullo sfondo nero. 

Coyote e OssicinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora