La fabbrica

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Eveline's pov
Non mi piaceva stare lì, tutti mi guardavano come se fossi strana.
-Stai tranquilla tesoro, continua a fare il tuo lavoro-
Esordì mamma dandomi una piccola spinta di incoraggiamento sulla schiena. Mi girai a guardarla: come me aveva la pelle olivastra,un naso piccolo e dritto, lentiggini scure sulle guance  e le labbra carnose, anche se completamente sgretolate e piene di croste; contrariamente invece aveva dei lunghi capelli mossi di un castano caldo, gli occhi marroni e un fisico alto e slanciato. Non avevo mai messo in dubbio che mia madre fosse una bellissima donna, ma con tutta quella sporcizia e sangue secco appiccicati sulla faccia le si vedevano a malapena i puntini color cioccolato che le circondavano gli occhi.
-Muoviti, peste-
Un braccio forte mi prese da sotto l'ascella allontanandomi da mamma con uno strattone delicato. Khris, un mio caro amico, era l'unico tra i ragazzi a non guardarmi con sospetto in quella fabbrica; lo fissai mentre mi facevo trascinare dall'altra parte dell'enorme stanza, diretto verso i macchinari da cucitura. Indossava il suo solito paio di jeans logori e la sua maglietta bianca aveva oramai preso colorazioni più che strane; nonostante ciò lo avresti notato in mezzo a molti altri maschi, anche se vestiti in modo più elegante: aveva i capelli quasi bianchi, da quanto erano biondini, tagliati in modo tutt'altro che preciso e corti fino quasi al cranio, gli occhi grandi di un blu intenso e  la pelle chiara e candida come la neve. Il fisico muscoloso ma allo stesso tempo troppo magro era coperto di cicatrici che però solo in pochi avevano visto. Non so da quanto tempo fosse lì, effettivamente da quando avevo memoria, ma d'altro canto avevo solo 7 anni; Khristofor aveva 19 anni e sembrava sapere molto più di me del mondo al di fuori della fabbrica, forse perché dal suo sguardo usciva un risentimento mai visto in nessuno dei bambini rinchiusi con noi, o forse perché aveva sempre un'aria malinconica, simile alla disperazione, quando qualche adulto menzionava la libertà che ci era stata sottratta.
Arrivata alla mia postazione mi misi a inserire i tessuti dentro il macchinario stando attenta a tenere lontane le dita dalla morsa d'acciaio: una volta una bambina aveva perso due dita lavorando con la stessa macchina. Alzai lo sguardo notando che alcune donne, magre e piene di sporcizia, mi fissavano con sguardo torvo.
-Testa giù-
Khristofor mi prese la nuca in mezzo alla sua mano e mi forzò il collo fino a che non si abbassò di nuovo all'altezza del macchinario. Tutti mi odiavano per il mio cognome, ma io non lo portavo con orgoglio: mi chiamavo Evegeniya Sergeev, figlia di Alexandra  Gonzales, una prostituta spagnola, e di Viktor Jurij Sergeev, un miliardario russo; quando mamma rimase incinta minacciò mio padre di fare il test del DNA per ottenere il mantenimento, ma, subito dopo che mi riconobbe ufficialmente, rinchiuse entrambe in una delle sue fabbriche per paura che una delle due parlasse e rovinasse il suo matrimonio e la sua reputazione. L'azienda di Viktor esisteva in una maniera così banale e subdola che era quasi comica: vendeva vestiti di lusso in tutto il mondo sfruttando fino all'osso migliaia di donne, bambini, vecchi e uomini indebitati; e molte di loro lo sapevano, molte ditte che vendevano i nostri capi d'abbigliamento sapevano cosa ci accadeva nel cucire i loro preziosi abiti del cazzo, non avevamo docce, cure e cibo e acqua sufficienti appena per sopravvivere, mai mai abbastanza per avere la forza di sopportare lavori pesanti. Tutti in fabbrica credevano che avessi un trattamento di favore, ma non era così: lavoravo come tutti loro e facevo da portavoce per organizzare gli incontri con i corrieri che venivano a ritirare i capi d'abbigliamento. Raramente avevo visto mio padre e, francamente, avrei preferito non averlo mai incontrato.
Un urlo lancinante squarciò l'aria e i miei occhi vennero catapultati su mia madre, dall'altra parte del salone, con il braccio completamente risucchiato in un macchinario che piangeva e continuava a chiedere aiuto mentre il sangue iniziava a scrosciare sul pavimento. Feci per correre verso di lei, ma un braccio mi circondò la vita alzandomi da terra.
-Vai a chiedere aiuto, Ev-
Khristofor mi stava portando di corsa verso la porta che conduceva al piano superiore mentre la sua voce rotta mi entrava nei timpani, perforandomeli. Sopra di noi vi era lo studio di mio padre; odiava essere disturbato e impartiva severe punizioni a chiunque irrompesse nel suo studio, ma, anche se ero piccola, perfino io capivo che la clemenza di mio padre era l'unica cosa che avrebbe potuto salvare mamma: poteva chiamare qualcuno per curarla. Il ragazzo mi lasciò davanti alla porta per poi tornare verso il luogo dell'incidente correndo affannosamente, mentre le urla continuavano a squarciare l'aria; non avevo tempo per guardare quella scena, dovevo fare qualcosa di concreto: aprii la porta e salii a grandi passi tutti gli scalini che mi separavano dal suo ufficio. Non appena entrai in quella stanza il sangue mi si gelò.

Skull        (Dormer's series #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora