12. Samuel

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"Soy el fuego que arde tu piel

Soy el agua que mata tu sed

El castillo, la torre yo soy

La espada que guarda el caudal"

"Sono il fuoco che brucia la tua pelle

Io sono l'acqua che uccide la tua sete

Il castello, la torre sono

La spada che custodisce il flusso"

-Rodrigo Amarante-

Quando la gente mi chiede perché sono così, gli rispondo di provare loro stessi a sopravvivere più di due notti a La Colmena.

Laddove il turismo non arriva a Bogotà, ci sono quelle che comunemente vengono chiamate Favelas, in Brasile. Noi le chiamiamo Barrios bajos. 

Così, in questo posto dimenticato da Dio, sono nato io.

A La Colmena si vive in case fatte di lamiera, esposte al gelo delle colline. Non appaiono neanche sulle mappe, per l'importanza che hanno. L'orgoglio di Ciudad Bolivar. Il sindaco non ha mai voluto nemmeno confermarne l'esistenza, de La Colmena.

Non c'erano strade, non c'era nulla, solo una fila di case mal addossate divise da passaggi stretti e ripidi di terra dove può passare una persona alla volta.

Le case non erano neanche vere case, ma erano costruite con qualsiasi cosa fosse a disposizione, assi, tronchi, sacchi vecchi e plastica.

Lì, vivevo con la mia famiglia, composta da mia madre, e i miei tre fratelli, Guaje, che vuol dire letteralmente ragazzino, Majo, che si traduce come una persona simpatica e Illo, abbreviazione di Chiquillo.

Passavamo i nostri giorni girando per i quartieri vicini, a piedi nudi e con i pochi stracci che avevamo indosso, sognando il mondo oltre La Colmena, che ci aspettava.

Avevo un solo sogno, diventare come Dadinho, anche soprannominato Ze Pequeno. Lui era brasiliano in realtà, ma le sue storie giravano per tutti i quartieri come il mio. Il ragazzo delle Favelas che era riuscito a diventare un potente narcotrafficante, senza neanche entrare nelle bande già presenti nel paese. Lui era il mio idolo, e mentre il sole calava prima che arrivasse sera, guardavo l'orizzonte, e sparavo verso il sole calante con la mia pistola immaginaria.

Questo è quello che sognavamo, da piccoli. Altro che CEO o direttore bancario, noi volevamo diventare criminali.

I soldi erano pochi, o del tutto inesistenti. Dovevamo arrangiarci con ciò che trovavamo per strada, e molto spesso non bastava. Per questo, una volta raggiunti i diciassette anni, si poteva iniziare a fare il mulo. Ciò vuol dire che andavamo a chiedere elemosina alle organizzazioni criminali, per farci ingoiare pallini di coca da trasportare oltre il confine che avrebbero potuto rompersi nello stomaco facendoci morire sul colpo. Un gran bel futuro, per me e i miei fratelli.

Guaje, essendo il più grande, fu il primo a poterlo fare.  Non a dirlo, fece solo due viaggi, rimanendoci secco al secondo. 

Il suo corpo non l'abbiamo mai ricevuto indietro, fu sicuramente buttato in qualche fosso senza neanche dargli una vera sepoltura.

Guaje era il secondo mio idolo. Il fratello che divideva l'unico pezzo di pane in tre, solo per dare qualcosa in più a noi, i piccoli. 

La sera prima della sua partenza, ci mettemmo tutti in cerchio attorno la lampada a gas, mentre lui raccontava storie raccontante di altri, di cosa c'era oltre La Colmena, nel magico posto dove stava andando, fatto di cibo a non finire e vestiti puliti. Ci riempì la testa di cazzate, chiaramente, di un posto che non esisteva.

Non siamo bravi ragazziDove le storie prendono vita. Scoprilo ora