CAPITOLO 5

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Aprii le palpebre a poco a poco, e le ciglia dell'occhio destro strusciarono contro qualcosa. La mia guancia poggiava su una superficie dura e irregolare e scivolosa. Pian piano misi a fuoco un'infinita distesa di acqua calma, azzurra come i miei occhi.

Il Mar Thalion.

Ero a cavalcioni sull'albero, china su di esso, le braccia che ciondolavano ai rispettivi lati, le dita ogni tanto schizzate dalle piccole onde che si infrangevano contro il tronco. Pigiai le mani sulla corteccia bagnata e feci leva per tirarmi su.

Mi resi subito conto di due cose.

La prima fu l'incessante e doloroso pulsare alla fronte che mi diede l'impressione che il mio cranio stesse per implodere.

La seconda, che Araton non era venuto a prendermi, dopo la caduta. E sapevo bene perché.

Stizzita, mi portai indice e medio all'attaccatura dei capelli, vicino alla tempia. Avvertii un bruciore istantaneo e ritirai le dita con un sibilo, accigliandomi alla vista della patina vermiglia sui polpastrelli.

«Immagino tu abbia battuto la testa sul tronco, quando siamo caduti».

Guizzai con lo sguardo davanti a me, rimanendo di stucco. Il soldato era vivo. La cascata del Glawar era alta più di duemila piedi e le correnti che si formavano nel punto in cui il mare la accoglieva erano troppo forti perché un umano, anche se miracolosamente sopravvissuto all'impatto, riuscisse a riemergere.

Tuttavia, quest'uomo ne era stato in grado. E per la seconda volta la sua presenza era sfuggita ai miei sensi.

Mentre io mi trovavo alla base dell'albero, lui era seduto verso la fronda ormai spoglia, nella mia stessa posizione. Sotto il sole, i suoi capelli avevano già incominciato ad asciugarsi in cima al capo, mentre rivoli d'acqua gli colavano dalle punte leggermente arricciate, rigandogli l'armatura. Aveva uno zigomo scorticato, così come le nocche delle mani, che teneva posate sulle cosce muscolose.

Mi stava squadrando apertamente, un sorrisino arrogante sulle labbra carnose e ben disegnate. I suoi occhi nascondevano un luccichio predatorio che mi mise in allerta.

«Perché non mi hai uccisa?», domandai, lanciando una rapida occhiata al pugnale sul suo fianco mentre d'istinto chiudevo le dita intorno all'elsa del mio.

Anche se prima ci eravamo aiutati per rimanere sull'albero mentre la furia dell'acqua ci trascinava via, non significava che non fossimo più nemici.

Il suo sogghigno si accentuò. «Mi servivi per bilanciare il tronco», e diede una pacca sulla corteccia, come se fosse un cavallo.

«Potevi salire al centro», gli feci notare.

«Sì, be'...» Si grattò la barba, distogliendo lo sguardo mentre un velo di rossore gli imporporava le gote. «Più facile a dirsi, che a farsi».

Soprattutto con un'armatura pesante come la sua, supposi.

Con un sospiro, lasciai la presa sul pugnale e mi guardai alle spalle per capire quanto ci fossimo allontanati dalla costa e trovare una via da cui tornare ognuno ai rispettivi regni.

Solo che non vidi le imponenti scogliere frastagliate da cui eravamo precipitati, né le falesie calcaree che caratterizzavano il Regno degli Elfi, o le spiagge dorate del Regno degli Uomini.

Non vidi le Terre dell'Est.

Neppure una linea sottile all'orizzonte.

Eravamo alla deriva.



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