CAPITOLO 41

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Mi spianai le lacrime che mi rotolarono lungo le guance con le dita, strofinandole energicamente per asciugarle mentre viaggiavo spedita per i corridoi della villa, la lunga veste da notte che mi ondeggiava dietro le gambe come una bandiera che sbatacchia al vento. Non mi interessava che i servitori mi vedessero in queste condizioni così sconvenienti.

Ero furiosa.

Furiosa con Amlach, perché per la sua razza l'intimità non aveva alcun valore, non era sacra come lo era per noi elfi.

Furiosa con me stessa, perché mi ero abbassata a piangere per lui, che chissà quante volte nella sua giovane vita era saltato da una donna all'altra senza rimorsi, senza provare nulla.

Io invece stavo provando un caleidoscopio di emozioni che mai prima d'ora mi avevano sfiorato. Che non sapevo gestire.

Che mi rifiutavo di accettare.

Per questo marciai a piedi nudi fino allo studio del Signore Roxior. Sollevai il pugno per bussare, ma la porta si aprì prima che potessi farlo.

Il tesoriere di Roxior – un uomo in nero vicino alla sessantina, con la pelle oleosa del viso scurita dal sole, le borse sotto gli stretti occhi marroni, i baffi neri e un pizzetto verticale sul mento segnato da profonde rughe trasversali – sobbalzò per lo spavento e con una mano si resse il turbante rosso, a cui era cucito un lunghissimo velo che gli ricadeva dietro le spalle come una mantella, prima che gli scivolasse dal capo.

«Oh, dèi!», boccheggiò quando si accorse che non ero collegata ad Amlach. «È... è l-libera», balbettò terrorizzato, appiattendosi contro il battente come se sperasse che lo assorbisse per potersi salvare da me. «S-Signore, l-l'elfa è l-libera!»

Roxior, in piedi davanti alla grande finestra ad arco che illuminava la stanza, non diede segno di essere preoccupato per la mia presenza. O forse non lo diede a vedere.

«Lasciatelo passare, Altezza, prima che gli venga un attacco di cuore», disse in tono stanco. Soffiò fuori il fumo inspirato dalla pipa e borbottò: «Non vorrei perdere anche il mio tesoriere».

Scrutai il registro con la copertina in pelle che l'uomo si stava tenendo stretto al petto, poi lanciai un'occhiata torva al sacchetto di velluto cremisi sull'elegante scrivania in legno scuro. Doveva essere il denaro della Signora Yrrek.

Per pagare la notte di amplessi con Amlach.

Un sapore amaro mi risalì in gola mentre mi scansavo per permettere al tesoriere di filarsela come se avesse un demone alle calcagna. Dopodiché varcai la soglia senza attendere di essere invitata.

«Voglio un'altra camera», esordii imperativa. «O almeno due letti separati». Lui inarcò un sopracciglio, così mi imposi di moderare il mio tono sgarbato e, quasi tra i denti, soggiunsi: «Per favore».

«Buongiorno a voi, Altezza», mi accolse Roxior, altrettanto mordace. Si andò a sedere allo scranno dietro la scrivania; sembrava invecchiato di dieci anni, da ieri sera, e la sua espressione era più buia del solito.

Mi fece segno di accomodarmi a una delle due sedie davanti al tavolo, ma declinai e cominciai a misurare la stanza luminosa a passi incolleriti, gli occhi che registravano ogni tomo sugli scaffali delle librerie in marmo che occupavano le pareti.

«Deduco che il comandante è rincasato», disse Roxior.

«E porta i segni che quella vipera gli ha lasciato addosso come un animale», sibilai.

Per me. Perché li vedessi. Perché immaginassi tutto ciò che avevano fatto, come lo avevano fatto.

Roxior espirò una nuvoletta di fumo chiaro. «Capisco».

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