CAPITOLO 10

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Esplorai l'isola in lungo e in largo, intimandomi di concentrarmi sulla ricerca di cibo. Strappai un lembo della mia tunica per ricavarne una sacchetta in cui raccogliere alcune bacche, funghi, erbe selvatiche e una noce di cocco. Tra le fronde rigogliose, una miriade di uccellini di diverse specie si passavano informazioni, volando freneticamente da un ramo all'altro quando foglie o ramoscelli si spezzavano sotto i miei piedi.

Fu solo quando giunsi dall'altro lato dell'isola, che scovai della selvaggina.

Tre uccelli galliforme neri, con una macchia rossa sul collo, la testa grigia e il becco giallo come le lunghe e robuste zampe, stavano piluccando tra le piante in prossimità della spiaggia.

Lentissimamente, appoggiai il mio bottino a terra. Mi presi qualche secondo per regolare il respiro, lo sguardo predatorio puntato su uno dei tre uccelli.

Poi scattai, rapida come una freccia.

Gli altri due esemplari si librarono in volo gettando uno stridio assordante mentre placcavo il compagno e, prima che potesse emettere un verso, gli spezzavo il collo.


* * *


Quando tornai dalla parte dell'isola su cui eravamo naufragati, era tardo pomeriggio. Le onde avevano spinto il nostro albero sulla spiaggia; ne osservai il relitto mentre camminavo nella sabbia tiepida, ripensando agli ultimi giorni trascorsi su di esso. Il sole, di un arancione tanto vivido da sembrare liquido, era scomparso per metà all'orizzonte, avvolgendo il mondo nella sua luce calda e malinconica.

Amlach aveva allestito una sorta di campo base, con un tronco corto su cui sedersi davanti al fuoco già acceso e due giacigli dall'aspetto confortevole ai lati, formati da grosse foglie verde smeraldo dalle venature biancastre.

Seduto sul tronco, Amlach stava finendo di assemblare uno spiedo da tenere sospeso sulle fiamme, quando mi fermai a qualche passo da lui.

«La tua carne», esordii, posando l'uccello a terra e facendo per dirigermi verso la foce del fiumiciattolo per lavare le bacche e le erbe.

«Non serve che mantieni le distanze, elfa», mi bloccò lui. Sollevò lo sguardo provocante su di me. «Non ti toccherò».

Lottai con tutta me stessa per stroncare il brivido che mi rotolò lungo la spina dorsale e aggrottai le sopracciglia. «Ti ucciderei in una frazione di secondo, se ci provassi».

Amlach stirò un angolo della bocca. «Ne sei certa?»

Troppo a lungo i miei occhi indugiarono nei suoi.

Troppo a lungo permisi ai suoi di intrappolarmi.

Mi avviai di soprassalto verso l'acqua dolce, il cuore in gola e la sensazione di essere ammantata dalle fiamme.

«Grazie per il pollo», mi urlò dietro Amlach, in tono insolente.

Resistetti alla tentazione di lanciare il gallo agli squali e passai i successivi minuti a pulire per bene ciò che avevo raccolto. Quando tornai da Amlach, lui aveva già cominciato a spennare l'uccello. Lasciai il mio sacchetto sul tronco e andai a racimolare altra legna da ardere.

La sera scese su di noi con la sua escursione termica, e dopo aver trascorso quasi tre notti a contrarre ogni singolo muscolo per non far intuire all'umano che anch'io soffrivo il freddo, mi godetti il dolce tepore del fuoco sul viso.

Gustammo la carne ancora sfrigolante in silenzio. Amlach aveva tritato alcune delle erbette per spargercele sopra e l'aveva bagnata con il succo di due, tre bacche. Era squisita. E sì, molto meglio del pesce crudo. Ma non gli diedi la soddisfazione di ammetterlo.

Tuttavia, da come mi sbirciava tra un boccone e l'altro con quell'irritante sorrisino, dedussi che già lo sapesse.

Lui finì di mangiare per primo e andò a bere e a lavare via il grasso dalle mani e dal muso.

«Ho riflettuto», disse quando riprese posto all'altra estremità del tronco. Usò un ramo per attizzare le braci del fuoco. «Credo che sia meglio rimanere qui fino all'arrivo del tuo fratellone».

Per un attimo smisi di masticare, poi ripresi e mandai giù. «Non penserebbe mai che io sia qui», replicai cupa. «Mi starà cercando in mare», mentii.

Non c'era bisogno che Amlach sapesse che nessuna nave sarebbe venuta a soccorrerci e che potevamo contare soltanto su noi stessi.

«È assurdo», trasecolò lui. «Perché dovrebbe?»

Ripulii l'osso che avevo in mano e lo gettai tra le fiamme. Avrei potuto tacere, invece rivelai: «Perché posso nuotare per giorni senza mai stancarmi».

Amlach impiegò qualche istante per processare le mie parole. Quando comprese il significato implicito che racchiudevano, inspirò a fondo. «Ecco perché volevi andartene. Non per andare incontro a tuo fratello, ma per tornare direttamente nelle Terre dell'Est».

Mi passai il dorso della mano sulle labbra unte. «Sì».

Percepii lo sguardo di Amlach fisso su di me. Pareva volermi scavare dentro. «Te ne saresti potuta andare, non appena la tempesta si è placata».

Guardai la luna riflettersi in maniera distorta e allungata sulla superficie increspata del mare, così scuro da sembrare catrame.

«Sì», confermai.

Il respiro di Amlach si fece più pesante. «Perché sei rimasta con me?»

Fu il tono suadente della sua voce a farmi voltare verso di lui. Il bagliore del fuoco si rifletteva nelle sue iridi, dando l'impressione che il verde pino fosse liquido e pervaso da scintille.

«Non lo so», mormorai.

Rimanemmo a guardarci.

Il crepitio della brace, il rumore delle onde che si infrangevano dolcemente a riva e il canto degli uccelli notturni diventarono pian piano un suono sempre più distante, alle mie orecchie.

C'era solo il rumore dei nostri respiri.

C'era solo il suo sguardo intenso.

C'erano solo la mia mano sinistra e la sua mano destra, posate sul tronco, le punte delle dita poco distanti tra loro.

Dita che iniziarono ad avvicinarsi.

Ma prima che potessero sfiorarsi, mi alzai di colpo e marciai con rabbia verso la foce del fiumiciattolo, affondando nella sabbia fredda fino ai malleoli.

Che mi stava succedendo?


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