CAPITOLO 18

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Per tre giorni rimasi legata al palo. Tre giorni di umiliazione in cui Amlach mi aveva imboccata per farmi mangiare la brodaglia di pesce o bere l'acqua stantia e in cui mi aveva posizionato il secchiello per gli escrementi tra le gambe, voltandosi dall'altra parte mentre, versando cocenti lacrime di vergogna, mi liberavo.

Essere ancora incatenata era positivo, tuttavia. Significava che né il capitano né la sua ciurma sapevano che noi elfi perdevamo le nostre capacità soprannaturali, una volta fuori dalle Terre dell'Est.

Significava che mi temevano ancora.

E forse avrei potuto usare la cosa a nostro vantaggio.


* * *


Un tonfo sul soffitto mi svegliò di soprassalto, e tirai su la testa con uno scatto tanto fulmineo che avvertii una specie di scossa elettrica alla nuca. Tirai il fiato per il dolore accecante, mantenendo la bocca chiusa per non farmi sfuggire neanche un lamento.

«Certo che hai proprio dormito come un ghiro, elfa».

Spostai lo sguardo verso Amlach, appoggiato contro la parete di legno con il suo solito sorrisetto strafottente.

«Mi sembra di non averlo mai fatto davvero», confessai. Ed era normale che mi sentissi ancora più stanca di prima?

«Hai addirittura russato», aggiunse Amlach.

Lo trapassai con un'occhiataccia. Gli elfi non russavano, e la paura che potessi averlo fatto davvero mi fece andare in fiamme le punte delle orecchie.

«Tranquilla, non lo dirò a nessuno», sogghignò Amlach, strizzandomi l'occhio.

Un altro tonfo sordo riportò la mia attenzione sul soffitto. Mi sembrò di cogliere un gran viavai sopra di noi e un'accozzaglia di voci baritonali. In più, mi parve anche di notare che l'oscillamento della nave fosse minimo.

Eravamo fermi.

«Da quanto siamo arrivati?», domandai.

«Qualche minuto», rispose Amlach.

Mi adombrai, le narici dilatate mentre fissavo le travi con preoccupazione.

«Ehi». Amlach mi pungolò la gamba con il piede, attirando il mio sguardo a sé. «Andrà bene», mi assicurò.

Lo scrutai in tralice. Se anche lui era in apprensione, non lo dava a vedere. «Dobbiamo elaborare un piano per scappare».

«Lo faremo», convenne in tono d'un tratto lungimirante. «Ma non dobbiamo avere fretta».

«Che cosa vorrebbe dire?», sibilai.

Lui mi scoccò un'occhiata eloquente e fece per replicare, ma proprio in quel mentre la porticina si spalancò e il secondo in comando si abbassò per varcarla, il braccio sostenuto da una fascia legata al collo.

«In piedi, gente!», esordì con voce tanto alta da spaventare i bambini, che si misero a piangere. «È arrivato il momento di accogliere a braccia aperte le vostre nuove vite».

Altri tre uomini con mazze di legno entrarono e, passandosi un tintinnante mazzo di chiavi, iniziarono ad aprire le celle. Uno di loro, notai, portava in spalla due paia di spesse manette collegate da una catena.

«Potrete ringraziarci quando le nostre strade si incroceranno di nuovo», aggiunse il secondo in comando.

Perché mai queste persone avrebbero dovuto ringraziarli? Li avevano strappati alle loro case per condannarli a un'esistenza in schiavitù in una terra straniera.

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