CAPITOLO 24

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Il belato improvviso di un agnellino mi destò di soprassalto, il giorno dopo. Le porte scorrevoli dello stanzone erano ancora chiuse, ma la luce del sole già filtrava dalle numerose aperture rettangolari in cima alle pareti, dove qualche tortora stava dormendo con la testa incassata tra le incrostazioni di escrementi.

Ero seduta con le spalle contro il muro, le gambe stese e un dolore lancinante che si irradiava dalla nuca. Avevo la sensazione che la vescica stesse per scoppiarmi; era come se qualcosa di pesante vi stesse premendo sopra.

Ed era così.

Il braccio possente di Amlach era piazzato sul mio grembo, le dita che mi affondavano nel fianco con la stessa forza con cui aveva stretto le mie mani intorno alle else dei nostri pugnali durante la tempesta in mare. Stava dormendo sul fianco, rivolto verso di me, la fronte premuta contro l'esterno della mia coscia.

Del tutto inconsapevole dell'intimità di quella posizione.

Del tutto inconsapevole del cuore che stava per sfondarmi il petto.

Dovevo togliermelo di dosso. Subito. Non potevo lasciarmi sopraffare dalla sensazione avvolgente che a poco a poco stava prendendo forma in me. Non potevo lasciarmi sfiorare dal pensiero di stendermi a mia volta sulla paglia, accanto a lui, e abbandonarmi nel suo abbraccio.

Non potevo sentirmi così bene.

Dunque, lo ghermii per il polso, mi sradicai le sue dita dal fianco e gettai via il suo braccio con rabbia, producendo uno sferragliamento che scombussolò gli animali nelle stalle.

Amlach spalancò le palpebre di colpo e mi trapassò con un'occhiata molto irritata. «Che diamine», bofonchiò, tirandosi su a sedere. «Avresti potuto essere un po' più gentile...»

«Mi stavi avvinghiato», rimbeccai.

«Per gli dèi, elfa, non ti stavo mica violentando», ribatté con un occhiata tagliente.

Lo fissai furiosa per qualche secondo, per poi realizzare che forse stavo esagerando. Distolsi lo sguardo con un sospiro colpevole e dissi: «Hai ragione. Mi dispiace per come ho reagito. Devi avermi cinta con il braccio mentre dormivamo, senza neppure rendertene conto».

Ma la cosa peggiore era che io non me ne fossi accorta all'istante. Che il mio corpo avesse accettato la sua presa così possessiva.

«Tu dormivi», fece Amlach, lo spettro di un sorriso sornione sulle labbra. «Io ero più che sveglio».

Se ne avesse avuto il potere, la collera che trasudai da tutti i pori lo avrebbe carbonizzato. «Non farlo mai più», gli intimai a denti stretti.

Il suo sguardo scaltro cadde sulla mia bocca. «Fare cosa?»

«Toccarmi deliberatamente», ringhiai. «Toccarmi come se fossi...»

«Mia?»

Il respiro mi morì in gola. Il mio cuore saltò un battito.

Eravamo troppo, troppo vicini. Spalla a spalla. I miei occhi che affogavano nei suoi e i suoi che divoravano i miei. C'era qualcosa di osceno nel modo in cui mi stava guardando. E ferale. E oscuro.

Qualcosa che mi calamitò a sé.

Qualcosa che mi artigliò l'anima.

Qualcosa che risvegliò...

I battenti dello stanzone si aprirono d'improvviso, e il cigolio delle rotelle sui binari fece prorompere un asino in un raglio assordante.

Cinque guardie, con tuniche bianche che arrivavano a metà coscia e corazze seminascoste sotto i mantelli rossi, marciarono verso di noi. Daghe in guaine di cuoio pendevano dai loro fianchi, mentre quattro di loro impugnavano una balestra con il dardo già incoccato.

Io e Amlach ci rizzammo in sincronia quando il quinto soldato, con il naso storto e in mano un grosso anello di ferro in cui erano infilate la chiave della cella e un'altra chiave più piccola, si fece avanti per aprire le sbarre.

«Il Signore Roxior vuole vedervi», annunciò con voce piatta. «Ma non prima che vi siate resi presentabili». Si fece da parte per lasciarci libero il passaggio. «Abbiamo l'ordine di scortarvi ai bagni».

Mi imposi di rimanere impassibile, ma dentro di me urlai di gioia. Fare pipì in un angolo della cella, la sera prima, legata ad Amlach, era stato così umiliante – nonostante lui fosse rimasto di spalle per tutto il tempo, così come avevo fatto io quando era venuto il suo turno.

I bagni si trovavano tra il dormitorio delle guardie e quello dei servi ed erano formati da una grande stanza divisa in due vani: da un lato vi erano le docce e dall'altro le latrine, fronteggiate da una lunga lastra di pietra su cui vi erano delle bacinelle di legno con dell'acqua pulita e del sapone.

La guardia che aveva parlato prima ci si avvicinò, la chiave più corta stretta tra pollice e indice. «Provate a fare qualcosa di incredibilmente stupido, e vi ritroverete con una freccia conficcata in ciascuna gamba. Sono stato chiaro?»

«Abbiamo già dato la nostra parola al vostro padrone che non avremmo causato problemi», dissi con espressione arcigna.

Ammaliati dalla mia voce, i quattro uomini abbassarono lievemente le balestre per poi ridarsi subito un contegno e rialzare la mira.

«Cristallino, amico», fece Amlach con un sorriso lupesco, porgendogli i polsi.

Lo imitai con riluttanza, massaggiandomi la pelle arrossata quando fui finalmente priva delle manette. Scalpitavo dall'urgenza di svuotare la vescica, perciò scagliai un'occhiata feroce ai soldati affinché andassero fuori.

«Ci lascereste un po' di intimità, gentilmente?», domandò Amlach, avvertendo il mio disagio.

«Spiacente», fece la quinta guardia. «Abbiamo l'ordine di non perdervi mai di vista». Accennò un ghigno. «Specialmente l'elfa».

«Davvero nobile da parte vostra», fu il mordace commento di Amlach.

Sbuffando infuriata dalle narici, mi diressi verso la latrina in fondo alla stanza. Dopo, mi sciacquai le mani con la sensazione di andare a fuoco fino alla punta delle orecchie.

Quando passammo dalla parte delle docce, una ragazzina entrò nei bagni a testa bassa, depositò due grossi teli bianchi ripiegati sulle sedie allineate lungo la parete divisoria e si defilò alla svelta.

«Spogliatevi e lavatevi», ci comandò il soldato, alludendo alle docce con un cenno del mento. «Puzzate più delle bestie con cui avete dormito», aggiunse, suscitando le risatine dei compagni.

Nonostante non fossimo più incatenati l'uno all'altra, d'istinto mi ritrovai ad accostarmi ad Amlach fino a sfiorargli il braccio con il mio.

«Allora uscite», ingiunsi alle guardie. Amlach mi pungolò impercettibilmente con il gomito e, in un sibilo scontento, soggiunsi: «Per favore».

«Hai la memoria corta, femmina?», sbottò l'uomo. «Il nostro compito è sorvegliarvi».

«Mostrale rispetto, soldato», scattò Amlach con tono più che severo, quello che supponevo usasse con il suo esercito. «È una principessa».

«È una schiava», ribatté l'altro con sprezzo. «E se non si toglierà immediatamente i vestiti...» I suoi occhietti color fango scivolarono con lascivia lungo la mia figura, facendomi formicolare i pugni dalla smania di pestarlo. «Be'», sospirò, scambiando uno sguardo complice con i suoi compagni. «Glieli toglieremo noi».


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