CAPITOLO 28

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Mi accigliai, voltandomi piano verso l'anziano. «Per quale motivo?»

Lui si puntellò con il gomito contro la spalliera della poltrona e appoggiò la guancia sul palmo. «Voi siete una creatura dalla forza e velocità sovrumane, Principessa. Potreste affrontare dieci soldati con il minimo sforzo». Si picchiettò l'indice sulla tempia. «È corretto?»

Strinsi le palpebre, sondando i suoi occhi taglienti. Perché me lo stava chiedendo? Sospettava che gli stessi nascondendo qualcosa? O era semplicemente elettrizzato all'idea di vedermi lottare?

«Lo è», mentii.

La sua espressione non lasciò trapelare nulla. «Ebbene», proseguì, sporgendosi per prendere una fetta di melone dal vassoio con la frutta e iniziare a mangiarlo, «i Signori e le Signore che partecipano ai Giochi con i loro gladiatori hanno sporto un reclamo immediato, non appena hanno saputo di voi. È stata indetta una riunione straordinaria con gli organizzatori dei Giochi, ieri pomeriggio, e dopo varie discussioni è stato deciso che voi, Altezza», indicò prima me con la metà del melone rimastagli tra le dita e poi Amlach, «combatterete legata al comandante, così che abbiate uno svantaggio», ancora quel microscopico sorrisetto criptico, «rispetto agli umani che affronterete».

Non sarà il mio unico svantaggio, purtroppo.

Mi irrigidii, mentre Amlach trasse un respiro teso. Ci guardammo di soppiatto, per nulla entusiasti.

«Comprendo», dissi poi, cupa.

Roxior ingoiò l'ultimo boccone di melone, sviò lo sguardo sui suoi uomini e fletté due dita a uncino per far segno loro di avanzare. «Prego, allora», ci esortò.

I soldati posarono le balestre a terra e sguainarono le daghe. Dalle loro facce eccitate, era palese che non vedevano l'ora che arrivasse questo momento – forse per provare al loro padrone di essere migliori di noi.

Di potermi battere.

Illusi.

Mentre ci volgevamo per fronteggiarli, Amlach si chinò per sussurrarmi: «Lo svantaggio cercherà di non starti troppo tra i piedi, elfa».

Gli scoccai un'occhiata torva che gli strappò il solito, irritante sorrisetto, poi ci focalizzammo sui cinque avversari pronti a spillare il nostro sangue.

Avevo perso la mia forza, la mia velocità. Ma ciò non significava che avessi perso la mia arte nel combattimento.

Così, quando le prime due guardie attaccarono, mostrai loro di cosa ero realmente capace.

Parai e scartai gli affondi, adeguandomi agli strattoni che Amlach mi dava involontariamente mentre menava pugni e calci.

Dove io ero fluidità e leggerezza, lui era forza bruta. E ben presto ci destreggiammo in una danza che solo noi due conoscevamo. Quando io mi abbassavo, il colpo di Amlach andava a segno. Quando io bloccavo, lui metteva al tappeto. La catena che ci univa si trasformò in un'arma da usare ogniqualvolta i nostri sguardi si trovavano nella mischia.

I soldati erano talmente scoordinati tra loro da ostacolarsi. Mentre io e Amlach... Noi eravamo una cosa sola.

Una sola mente.

Un solo respiro.

Un solo cuore.

E quando rimase in piedi soltanto un uomo, sapemmo cosa fare senza neppure guardarci.

Livido per via dei suoi compagni a terra, che si contorcevano per il dolore di qualche costola incrinata e dito rotto o tentavano di restare coscienti dopo una violenta botta alla testa, la quinta guardia si avventò su di noi.

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