CAPITOLO 34

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Assassina.

Non riuscivo a smettere di ripetermelo nei pensieri, mentre Roxior, come premio per la nostra vittoria, ci guidava alle terme nella sua ala privata della villa.

Alle nostre spalle, la governante Lotte e l'altra schiava di mezz'età emettevano deboli versi di disappunto alle esclamazioni del loro padrone, che stava rivivendo ad alta voce ogni singolo momento dello scontro nell'arena con l'entusiasmo di un bambino. O forse era per la scia di sabbia e l'olezzo di sangue e sudore che io e Amlach ci stavamo lasciando dietro.

Giunti a destinazione, Roxior spalancò la porta a doppia anta ed entrò, allargando le braccia con orgoglio mentre faceva una pigra giravolta per mostrarci la stanza.

Il pavimento era ricoperto da un intricato mosaico sui toni del mare che ritraeva una maestosa balena e le pitture sulle pareti narravano scene inerenti alla vita sott'acqua. Due docce, dotate di panchine in pietra, erano delimitate da colonne con pesci e delfini scolpiti sui capitelli. Una coppia di statue di donne, addossate al muro, teneva delle anfore sollevate sopra la testa per riversare acqua corrente nell'altissima vasca di marmo. Un piccolo forno a legna, posto in un angolo, scaldava l'acqua e l'ambiente, già velato da una nube di vapore.

Roxior schioccò le dita inanellate in direzione dell'armadio alla destra dell'uscio; le serve ne cacciarono fuori un paio di teli grandi e piccoli e li adagiarono sulla larga panca di marmo a sinistra della soglia.

Il Signore inchiodò me e Amlach con uno sguardo intenso. «Il mio secondo dono per voi», annunciò, e annuì a Lotte.

L'anziana pescò una minuscola chiave dalla tasca della tunica e, a turno, ci liberò dal collare e dalla manetta, consegnandoli alla compagna.

Era la prima volta che ne venivamo privati senza la presenza intimidatoria delle guardie che ci tenevano sotto tiro a distanza ravvicinata.

«Oggi siete stati magnifici, miei gladiatori», fece Roxior. «Rilassatevi finché lo desiderate. Ci attende una notte ricca di festeggiamenti».

Si congedò con una modesta riverenza e la governante richiuse la porta, lasciando me e Amlach soli. E non legati l'uno all'altra.

Lui reclinò il capo, abbassò le palpebre e rilasciò il respiro con forza dalle narici. «Vieni qui», disse poi.

Mi fece girare di spalle e iniziò a slacciarmi l'armatura con scatti quasi rabbiosi, tanto che dovetti chiedere un ulteriore sforzo alle gambe doloranti per restare piantata sul posto. Lasciai cadere l'armatura a terra e mi volsi per iniziare a slegare la sua con molta più calma.

Fu allora che notai il brutto taglio all'incavo tra la sua spalla e il collo. Essendo ricoperto del sangue degli uomini che aveva ammazzato, non mi ero accorta che anche lui fosse ferito, né mentre eravamo ancora sul campo né tornando alla villa.

Entrambi ci saremmo dovuti far ricucire da un guaritore, una volta in camera.

«Vai prima tu». Amlach mi scoccò un'occhiata maliziosa mentre ci toglievamo parabracci e gambali. «Non sbircio», promise e ruotò verso la parete opposta alle docce.

Sorrisi tra me e me, finendo di spogliarmi. Fidandomi ciecamente di lui, andai nuda verso le docce e ruotai la singola manopola sotto il tubo a sinistra. Il getto freddo mi piombò sul petto, mozzandomi il fiato. Con il sapone strofinai via sabbia, polvere, sangue e sudore da pelle e capelli, sibilando per il bruciore quando l'acqua finì sulla lesione aperta; poi grattai via la pittura secca dalla faccia.

Una volta pulita, chiusi il getto e salii i gradini per entrare nella vasca, immergendomi nell'acqua calda per la prima volta in più di un mese. La superficie vitrea e leggermente opaca, da cui si levavano i fumi del vapore, mi copriva a stento il seno, tanto la vasca era profonda.

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