CAPITOLO 13

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La mattina dopo ci preparammo per salpare. Mentre Amlach sistemava le provviste di cibo e delle specie di caraffe di legno che aveva realizzato per l'acqua, io controllai per l'ennesima volta che la zattera fosse sicura.

Quando fummo pronti, la spingemmo in mare. Vi salimmo e puntammo i remi sul fondale per rimanere nell'acqua bassa e vedere come le travi e le liane si comportassero una volta zuppe.

«Ci terrà a galla, elfa, non preoccuparti». Amlach sogghignò. «L'abbiamo costruita bene».

Ricambiai il suo sguardo d'intesa. «Allora andiamo a casa».

Ci sedemmo alle estremità laterali della zattera e iniziammo a remare per uscire dalla laguna. Una volta in mare aperto, dovemmo combattere contro un'improvvisa corrente che minacciò di spingerci indietro, verso gli scogli dell'isola. Quando riuscimmo a superarla, tirammo su i remi per riposarci un attimo e ne approfittai per studiare la posizione del sole e capire da quale parte dirigerci.

La sera, dopo aver mangiato, Amlach si stese per dormire qualche ora e recuperare le forze per la remata che lo aspettava domani.

Il cielo si fece tanto scuro che, lontano dalla luna quasi piena, sembrava nero. Continuando a vogare, rimirai la miriade di stelle che ci osservavano, come avevo sempre fatto nelle notti trascorse sul tronco e in seguito sulla spiaggia, quando Amlach era ormai sprofondato nel sonno.

D'un tratto la tristezza mi avvolse come un mantello, stringendomi il cuore. Con gli occhi lucidi, incominciai a intonare sottovoce la nenia elfica dedicata a mia nonna e al suo sacrificio.

«Ah», esclamò Amlach in un sospiro a metà tra affascinato e canzonatorio quando feci una breve pausa tra una strofa e l'altra. «Ella sa anche cantare».

Gli rivolsi un'occhiata un po' tronfia da sopra la spalla, sorridendo appena.

Lui si mise supino, un ginocchio piegato, le dita intrecciate dietro la nuca, le palpebre chiuse. «Di cosa parla?»

Mi rabbuiai e tornai a guardare le stelle, smettendo di remare. «Della povera dama Calien, la cui anima non può brillare lassù, insieme a quelle dei suoi cari».

Era questo che accadeva a noi elfi, quando comprendevamo che era giunto il momento del nostro Riposo: circondati dall'affetto delle persone amate, accoglievamo gli Spiriti dentro di noi ed essi guidavano con gentilezza le nostre anime nel cielo notturno, donandoci un'eternità di splendore e pace, a vegliare sui nostri cari ancora in vita.

Ma mia nonna non poteva proteggerci da lassù.

«Non sapevo che anche la sua anima fosse intrappolata nel cristallo», commentò Amlach, e nonostante il tono noncurante ebbi la sensazione di avvertire della tensione nella sua voce. «A scuola, quando ero un ragazzino, ci spiegarono che vi era rinchiuso solo il suo potere».

Una lacrima mi rotolò dall'angolo esterno dell'occhio. «La conoscenza dei vostri tutori è errata, purtroppo».

«Comunque», fece lui a bruciapelo, in tono allegro per alleggerire l'atmosfera cupa che si era creata. «Mi piacerebbe cantarti qualcosa a mia volta, visto che so quanto ti piace il suono della mia voce...»

«Credo che piaccia più a te stesso», borbottai.

«...ma le canzoni che girano nelle taverne frequentate da noi soldati non sono adatte alle tue orecchie caste», finì con un ghigno.

Lo ammonii con un'occhiataccia che lo fece ridacchiare. Feci scorrere lo sguardo sul suo petto che si alzava e abbassava a ritmo regolare, e mi tornò in mente un particolare.

«La tua armatura era diversa da quella degli altri soldati. E da quella del generale che si è fatto avanti. Era più elaborata». Scrutai il suo viso impassibile, quindi dichiarai: «Tu sei il comandante dell'esercito degli uomini».

Ecco perché era rimasto indietro per tentare di aiutare i suoi sottoposti, invece di darsela a gambe come quel codardo del suo generale.

Amlach rilasciò lentamente il respiro dalle narici e aprì gli occhi, fissando il cielo. «Un titolo come un altro».

«Perché sei rimasto nelle retrovie con il tuo signore e hai mandato un generale a parlare con noi?» Ora che lo conoscevo, ero certa che l'attacco si sarebbe potuto evitare, se avessimo negoziato con lui.

Di conseguenza, le due armate si sarebbero ritirate prima del crollo della diga del Lago Caran. Nessun umano sarebbe morto.

E noi due non saremmo stati sperduti nel Mar Thalion.

«Primo, il nostro re non era con noi, quel giorno», mi svelò Amlach. «Sapeva che tuo padre non si sarebbe degnato di scendere in campo per contrastarci e avrebbe mandato i figli a fare le sue veci, quindi è rimasto nel palazzo a Leukós. Secondo...» Deviò gli occhi beffardi su di me. «A me non piace chiacchierare con il nemico».

Già. Quando avessimo rimesso piede nelle Terre dell'Est, la nostra alleanza sarebbe cessata e saremmo tornati ad essere avversari. Ed ero sicura che non sarebbe trascorso molto tempo, prima di ritrovarci di nuovo faccia a faccia sul campo di battaglia.

Cosa avrei fatto, se fosse successo?

E lui? Mi avrebbe affrontata?

Non volevo pensarci.

«Cosa farai quando sarai a casa?», domandai in tono casuale.

Probabilmente il suo sovrano avrebbe indetto un grandioso banchetto per festeggiare il ritorno sano e salvo del suo comandante. Già immaginavo Amlach mentre intratteneva gli ospiti con il racconto della nostra avventura, facendo sfoggio di tutto il suo fascino e di certo modificando alcune parti per risultare un eroe ai loro occhi.

Chissà cosa avrebbe detto di me ai suoi compagni, quando fosse tornato in caserma. Ero piuttosto sicura che si sarebbe inventato di essere stato lui a salvare me.

«Mmh...» Amlach fece una smorfia pensierosa. «Penso proprio che mi sbronzerò fino a collassare nel mio letto, dal quale non mi alzerò per almeno due settimane».

Oh, come lo capivo. La prima cosa che avrei fatto, quando fossi tornata nei miei alloggi alla Reggia di Aegel, sarebbe stata rimanere in ammollo in un bel bagno caldo; poi mi sarei coricata nel mio enorme letto e, finalmente, avrei dormito per davvero, senza il ronzio delle zanzare nell'orecchio, il risucchio delle onde o i versi incessanti degli uccelli.

E senza dover reprimere il costante istinto di andare a sdraiarmi vicino ad Amlach.

Questi mi pungolò la gamba con il piede. «Voi elfi vi ubriacate?», mi schernì con un sorrisetto.

Gli diedi un colpo alla coscia con l'estremità del remo per rimetterlo al suo posto. «Dormi», ingiunsi, lo spettro di un sorriso sulle labbra.

La sua risata, bassa e sensuale, fu come un balsamo che attenuò la mia tristezza. Ripresi a remare, consapevole che quella sarebbe stata una delle ultime volte in cui l'avrei sentita.


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