CAPITOLO 11

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Mi svegliai con calma, avvolta in una splendida sensazione di calore. Per due giorni il mio riposo non era stato nient'altro che un dormiveglia. Per cui, quando ieri sera avevo poggiato la testa sul letto di foglie, ero crollata come un sasso.

Mi sollevai su un gomito, osservando il diadema di foglioline d'oro che, dopo aver sciolto le trecce, avevo poggiato sulla sabbia prima di addormentarmi. Probabilmente mi aveva già lasciato il segno dell'abbronzatura sulla fronte, visti i giorni passati sotto il sole cocente, perciò decisi di lasciarlo lì.

Mi tirai su a sedere, abbracciandomi le ginocchia. Il giaciglio di Amlach era vuoto, la sua tunica corta gettata sulle foglie. Aguzzai la vista e lo individuai in acqua, vicino al confine tra la laguna e il mare aperto.

Restai a osservarlo nuotare parallelo alla spiaggia, le bracciate poderose, la testa per la maggior parte del tempo sott'acqua.

Mi riscossi di colpo e, per l'ennesima volta, mi rimproverai per averlo fissato così a lungo, così attentamente. Mi rimisi il fodero del pugnale intorno alla vita, afferrai il panno ricavato dalla mia tunica e andai nella foresta per fare i miei bisogni e in seguito lavarmi alla piccola cascata con il laghetto. Raccolsi qualche altra bacca e frutto per la colazione, approfittandone per studiare le varie specie di alberi e memorizzarne la posizione, quindi tornai al campo.

«Buongiorno».

Trasalii, arrestandomi a tre passi dal tronco davanti al circolo di pietre in cui alcuni tizzoni ancora ardevano tra la cenere.

Amlach mi stava venendo incontro dalla riva con un sorriso smagliante e l'andatura sicura, da condottiero. I miei occhi indugiarono per un millesimo di secondo sul suo torso bagnato, che pareva essere stato cesellato da uno scultore per esaltarne al massimo ogni rilievo e avvallamento.

Nel momento in cui mi accorsi che il mio sguardo stava seguendo la strisciolina di peli castani che dall'ombelico scendeva sotto l'orlo dei suoi calzoni, avvampai con violenza e mi volsi di scatto verso la foresta.

«Che succede?», domandò Amlach, e colsi il fruscio delle foglie mentre prendeva la tunica.

«Sei nudo», risposi, senza fiato e furiosa con me stessa.

«Mezzo nudo», puntualizzò lui, e lo udii strofinarsi i capelli con la tunica.

Mi conficcai le unghie nel palmo. «Rivestiti, per favore».

«Non dirmi che un po' di pelle ti scandalizza, elfa», mi canzonò Amlach. «Di sicuro non è la prima volta che vedi il petto di un uomo».

Serrai le palpebre per contrastare l'improvviso bruciore agli occhi. Non ribattei.

Avvertii Amlach scrutarmi. «O sì?»

Trassi un respiro profondo. «Noi elfi siamo diversi da voi umani. O dalle streghe. Indossiamo sempre una veste, sia per immergerci nelle acque calde delle terme della Reggia di Aegel, sia quando facciamo il bagno nel magnifico fiume che scorre vicino alla nostra città».

Lui fece un verso di disapprovazione. «Non vi facevo così pudichi».

«Non lo siamo», sibilai. Sbuffai dal naso. Dovevo dirglielo, o non avrebbe mai capito il mio disagio. «Ci mostriamo nudi soltanto ai nostri compagni, a cui doniamo tutto il nostro corpo».

Percepii lo sguardo di Amlach percorrermi da capo a piedi con tanta veemenza che ebbi l'impressione che il tessuto della mia tunica si stesse disintegrando come un foglio di pergamena tra le fiamme.

«Be', io non sono un elfo», replicò poi, sardonico. «Sono un umano. E fa troppo caldo per indossare questa casacca puzzolente più del necessario. Tu che puoi, dovresti liberarti di quei pantaloni di cuoio», aggiunse, e sapevo che stava sogghignando. «Tra qualche minuto sarà come essere in una sauna, credimi».

Peccato che la mia tunica presentasse degli spacchi laterali per non intralciarmi nella battaglia e l'avessi tagliata sul davanti per ricavarne un sacchetto. Non potevo assolutamente andarmene in giro con le gambe in bella mostra.

«Amlach, ti prego», dissi tra i denti. «I nostri occhi non riescono a tollerare altra nudità, se non quella del nostro compagno o compagna».

Lui mi si avvicinò, fermandosi alle mie spalle. Era così alto, rispetto a me, e così vicino. Incombeva su di me con la sua sola presenza. Forte, virile, sensuale.

Proibita.

Con la coda dell'occhio lo scorsi chinarsi per parlarmi nell'orecchio, e cercai di non rabbrividire quando il suo respiro mi lambì la guancia.

«E tu non guardarmi, allora», sussurrò.

Furente sia per via della sua audacia sia per la reazione del mio corpo alla sua voce profonda e intrisa di promesse carnali, mi voltai di botto e ringhiai: «Come faccio a non guardarti, se dovremo lavorare insieme?».

Lo trafissi con un'occhiata omicida, per poi notare che si era rimesso la tunica. Tirai un sospiro di sollievo, e il suo sorrisetto si allargò. Avrei dovuto ringraziarlo, invece lo guardai malissimo.

«Lavorare a cosa?», mi chiese, divertito.

Lo sorpassai e mi sedetti sul tronco. Amlach si lasciò cadere sul suo giaciglio e si puntellò su un gomito mentre poggiavo il fagotto con la nostra colazione sulla sabbia, a metà strada tra me e lui, e lo aprivo.

«Costruiremo una zattera», dichiarai, spaccando in due una noce di cocco a mani nude, «e con essa lasceremo l'isola per tornare a casa».

Avvertii lo sguardo accigliato di Amlach osservarmi mentre mettevo da parte il guscio e incominciavo a spezzettare la polpa.

«O potremmo restare qui».

Guizzai con gli occhi su di lui e il mio cuore mancò un battito per l'intensità con cui mi stava fissando.

Poi Amlach si allungò per prendere una fragolina di bosco e la contemplò mentre se la rigirava tra le dita. «Lontano dalla faida tra i nostri popoli. Lontano dalle guerre che verranno. Lontano dalla morte». Guardò il mare. «C'è così tanta pace, qui». Rivolse il viso verso il cielo, chiudendo le palpebre e rilasciando un sospiro. «E luce».

Lo capivo. Il mio regno era pervaso da un'aura magica che rendeva ogni cosa più vivida, nondimeno vi erano momenti in cui mi sembrava che le antiche tenebre di Mornon tornassero a sovrastarmi per arrivare al Cristallo di Calien.

Ma quest'isola pareva immune da ogni malvagità che ancora aleggiava a nord delle Terre dell'Est. E più mi lasciavo abbracciare dalla sua bellezza, più mi sentivo rasserenata, come non lo ero da tanto, tanto tempo.

«Non hai una famiglia che ti aspetta? O una donna?», domandai ad Amlach.

«No». Si ficcò la fragola in bocca, poi si stese piegando un braccio dietro la testa, l'espressione distante. «Non ho mai avuto nessuno».

Lo compatii, e per la prima volta mi chiesi quale fosse la sua storia. Forse, nei prossimi giorni, me l'avrebbe raccontata.

«Io non posso restare, Amlach», dissi piano.

Mi mancavano i miei genitori. E Araton, anche se ce l'avevo con lui. Mi mancava il profumo silvestre dei boschi di Aegel, i sorrisi della sua gente. In più, ero l'erede al trono. Non potevo abbandonare il mio popolo così. Né il Cristallo di Calien, nonostante nulla potesse violare il tempio in cui riposava.

Dovevo tornare. Presto.

E presto io e Amlach saremmo tornati ognuno alla propria vita.

Perché il solo pensiero di separarci mi faceva formicolare le dita dall'insensato impulso di aggrapparmi a lui?

«Lo so», replicò Amlach in un fil di voce.

Un silenzio pesante calò tra di noi, rotto solo dal rumore delle onde e, ogni tanto, dal garrito dei gabbiani che si spostavano tra gli isolotti dell'arcipelago.

«Coraggio», esclamò Amlach all'improvviso, rizzandosi. Si allacciò la guaina del pugnale alla vita e poi si chinò per acciuffare una manciata di bacche dal mio bottino. «Andiamo a cercare qualche bel legnetto per la nostra zattera».

Mi fece l'occhiolino con un sorriso sghembo, si ficcò un mirtillo in bocca e si avviò verso la foresta.

Scossi la testa, concedendomi un mezzo sorriso. Dunque, presi due pezzi di cocco e, mordendone uno, mi alzai e lo seguii.


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