CAPITOLO 50

48 4 2
                                    

«Mettetelo ai ferri», ordinò mio fratello ai soldati, non appena la goletta fu ormeggiata a una delle numerose banchine che si ramificavano nell'insenatura.

«Araton», ringhiai tra i denti, agguantandogli il braccio prima che potesse incamminarsi verso la passerella.

Lui fissò le mie dita come se fossero rampicanti velenosi, i capelli che gli frustavano le guance per via del forte vento. Da quando aveva saputo che avevo passato la notte nella stiva con Amlach, si rifiutava di guardarmi in faccia.

«Lui non è una minaccia», asserii.

Soprattutto ora che eravamo rientrati in possesso della nostra forza e velocità sovrumane. Amlach non avrebbe potuto nemmeno tentare di scappare, figuriamoci provare ad attaccarci. Perché mio fratello si ostinava a trattarlo come se fosse un pericolo?

Araton e Amlach si scambiarono un'occhiata obliqua traboccante di astio e qualcosa che non capii.

Poi mio fratello mi prese con delicatezza il polso e si staccò la mia mano dal braccio. «Vedremo se la penserai ancora così».

Che voleva dire?

Prima che potessi domandarglielo, fece un cenno col mento al soldato che era riemerso da sottocoperta con un paio di pesanti manette. Egli raggiunse Amlach, che gli porse i polsi senza proferir parola, lo sguardo tronfio fisso su Araton.

Senza accorgermene, mi scostai da quest'ultimo per avvicinarmi ad Amlach. Osservai le bande di metallo chiudersi prima intorno a un polso, poi all'altro, i tratti del volto contorti da afflizione e rabbia al contempo.

Non era giusto. Non eravamo più a Rubra. Non eravamo più degli schiavi. Eravamo liberi. Liberi.

Non volevo mai più vedere Amlach in catene.

«Ehi», sussurrò Amlach per distogliere la mia attenzione dalla chiave che ruotava nella serratura delle manette. «Va tutto bene».

Feci per dirgli che non era vero. Che niente sarebbe andato bene, perché presto ci saremmo separati.

Ma Araton mi artigliò il gomito e mi strattonò lontano da Amlach, sibilandomi: «Smettila di stargli così vicino».

Mi strappai le sue dita di dosso, pronta a rispondergli con una ferocia che non mi apparteneva, ma che sentivo incomprensibilmente mia.

«Non è colpa sua, Principe», intervenne Amlach con tono autoritario nella sua lingua.

Mi voltai di scatto verso di lui con espressione incredula e terribilmente ferita.

Conosceva l'elfico.

Per quale motivo mi aveva mentito? Come aveva potuto farlo?

Amlach non mostrò alcun segno di pentimento o di scuse, seguitando a fissare mio fratello con durezza: «Abbiamo vissuto incatenati l'uno all'altra giorno e notte. È solo l'abitudine». Il suo sguardo divenne torvo. «Non prendetevela più con lei».

Araton lo guardò come se avesse voluto ficcargli una mano in bocca e strappargli la lingua. «Chiudi quella fogna», replicò con puro disgusto, senza disturbarsi a usare la lingua comune. «Andiamo!», ingiunse poi a gran voce.

Sbattei convulsamente le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e mi avviai dietro mio fratello.

«Nauriel», mi chiamò Amlach pianissimo, quando gli passai di fronte.

«No», dissi secca in elfico.

La sua ira sembrò inglobarmi come una forza invisibile, mentre sbarcavamo e percorrevamo la lunga banchina, poco affollata rispetto alle altre.

Incastonato in più insenature, il porto del Regno degli Elfi era contornato da strapiombi di rocce di granito, ricoperte da una ricca vegetazione sulle screziature chiare del mare. Salimmo le vie acciottolate del villaggio, passando tra le case in calce bianca, accompagnati dallo stridio dei gabbiani che riuscivano sempre a farsi regalare qualche sardina dai pescatori e dal profumino delle zuppe di pesce proveniente dalle botteghe.

Vedendomi sana e salva, gli abitanti mi rivolsero inchini e sorrisi ricolmi di gioia, gli occhi gonfi di lacrime che correvano al cielo mentre ringraziavano gli Spiriti per il mio ritorno.

Distribuii sorrisi di gratitudine e carezze, ma tagliai fuori le loro voci, concentrandomi solo sul fischio del vento e lo schiocco del mio mantello dorato, che mi sbatacchiava contro le gambe.

Arrivati alla stalla di una delle locande ai margini del villaggio, recuperammo i destrieri che Araton e i soldati avevano lasciato in custodia.

Sbirciai Amlach di nascosto mentre, nonostante le mani legate, montava con agilità su uno dei due cavalli neri in più che erano stati portati per noi. Non potendo prendere le redini, tolte dal collo dell'animale e legate allo staffile della sella di uno dei soldati, afferrò una generosa ciocca di criniera per tenersi.

I nostri sguardi si trovarono.

Mi hai fatto male, diceva il mio.

Lo so, rispondeva il suo.

«Non abbiamo tutto il giorno, sorella», mi apostrofò Araton, già in groppa al suo stallone morello.

Lo colpii con un'occhiataccia e, aggrappandomi all'arcione della sella, salii con un salto acrobatico sul mio cavallo. Prima che mio fratello desse il comando, mi lanciai al galoppo verso nord-est.

Reprimendo l'incalzante e tremendo istinto rubare le redini del cavallo di Amlach e fuggire via con lui.

Black SeaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora