CAPITOLO 7

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Lo guardai nuotare verso il tronco, ai cui rami che sporgevano fuori dall'acqua aveva appeso la fune e il fodero del pugnale, poi mi voltai di nuovo verso la tempesta in arrivo.

Da dove era saltata fuori?

Sapevo che in mare aperto i temporali potevano formarsi in pochi istanti. Eppure, percepivo qualcosa di sospetto in quei nuvoloni sempre più scuri, così come lo avevo avvertito durante l'inondazione del Lago Caran.

Qualcosa pregno di malvagità.

«Mi dai una mano o no?»

L'arroganza dell'umano mi strappò alle mie congetture e feci appena in tempo a folgorarlo con un'occhiataccia, prima che prendesse fiato per immergersi con la corda e spostarsi dall'altro lato dell'albero.

Me ne sarei potuta andare.

Dovevo andarmene.

Un po' di pioggia e il mare grosso non erano un problema, per me. In due o tre giorni, forse anche meno, sarei stata a casa. Dovevo iniziare a nuotare e, quando l'uragano fosse cessato, con l'avvento della notte e delle sue stelle avrei capito quale direzione prendere.

Invece, rimasi a galla dov'ero, incapace di tollerare di abbandonare il soldato alla furia della tempesta.

Dandomi dell'idiota, tornai verso l'albero e, mentre l'acqua cominciava a incresparsi, lo aiutai a far girare la fune intorno al tronco. Lui tornò dal mio lato e ci legammo le due estremità avanzate alla vita.

Una piccola onda ci colse di sorpresa, spingendo prima l'uomo contro di me e poi sbattendoci non troppo forte contro l'albero.

Mi ritrovai schiacciata tra il tronco e l'umano. Il suo corpo oscillava contro il mio. Le sue gambe si agitavano tra le mie, le nostre ginocchia che si urtavano involontariamente. Eravamo tanto vicini che il suo petto continuava a strusciare contro il mio, e il pensiero che potesse sentire i miei capezzoli inturgiditi mi fece arrossire per la vergogna.

Il suo sguardo mi entrò dentro, così in profondità che ebbi la sensazione di avvertire la sua presa intorno al cuore martellante e la sua intensità privarmi della capacità di respirare piano.

Non riuscivo a smettere di fissarlo.

E lui non smetteva di fissare me come se volesse divorarmi.

D'un tratto percepii le sue dita su un lato del busto. Tirai il fiato di colpo, irrigidendomi. La sua espressione si fece più oscura, i suoi occhi ardenti che mi sfidavano a fermarlo mentre scendeva con la mano sul mio fianco.

Ma io non feci nulla.

Non ero mai stata toccata in quel modo. Con tanta sicurezza, con tanta intenzione. Era disarmante, e mi lasciò palpitante.

Ne volevo ancora.

Di più.

Più forte.

Ovunque.

Lui stirò impercettibilmente un angolo delle labbra, e in una frazione di secondo estrasse il mio pugnale e lo piantò con decisione nel legno, a un soffio dalla mia testa.

Non battei ciglio, limitandomi ad aggrottare le sopracciglia.

Il suo sorrisino si accentuò. «Rilassati, elfa».

Mi guardò la bocca per un secondo di troppo, poi si allontanò da me per andare a recuperare il suo pugnale.

Espirai di botto, ansimando appena, e mi godetti l'onda che mi schiaffeggiò il volto accaldato.

Il soldato tornò da me, conficcò la sua arma accanto alla mia e infine diede violente manate sulle estremità delle else affinché le due lame penetrassero fino in fondo nel tronco. Strinse una mano intorno all'elsa del suo pugnale e mi indicò quella del mio con un'occhiata scaltra.

Trapassandolo con lo sguardo, mi aggrappai alla mia arma.

Poi la pioggia si riversò su di noi, divenendo torrenziale nel giro di un attimo. Cavalloni giganteschi iniziarono a formarsi e a schiantarsi sull'albero. Lampi e fulmini imperversavano tra le dense nubi, tanto basse che sembravano incombere su di noi.

Le correnti impetuose si impadronirono del tronco, facendolo ruotare in continuazione. Le onde si accanirono su di esso, facendolo inabissare di nuovo prima che avessimo il tempo di prendere una boccata di ossigeno.

E invece di tenersi con ambedue le mani all'elsa del suo pugnale, quello stupido di un umano non faceva che tentare di cingermi con un braccio per tenermi vicino, pensando che avessi bisogno del suo aiuto per affrontare l'inferno d'acqua in cui ci trovavamo.

Per questo, quando un'onda ci investì in tutta la sua violenza, le sue dita scivolarono via dall'elsa.

Ma le mie lo trovarono subito.

Lo attanagliai per l'avambraccio e lo ritirai fuori dall'acqua, spingendolo verso l'elsa affinché ci si riaggrappasse mentre tossiva e boccheggiava. Poi lo ghermii per il colletto della tunica e lo addossai all'albero.

«Smettila di cercare di proteggermi!», gli urlai in faccia per sovrastare il fischio assordante del vento e il rombo del mare. «Sono più forte di te».

Di slancio gli avvolsi i fianchi con le gambe e gli tolsi la mano dall'elsa del suo pugnale per sostituirla con la mia. Racchiuso tra le mie braccia, lui mi osservò come se fossi uscita di senno, e un balenio famelico gli attraversò gli occhi quando aumentai la morsa delle mie cosce per evitare che le correnti me lo strappassero via.

«Legati a me», lo istruii, indicando con un'occhiata la corda intorno alla mia vita. «Io proteggerò te».

Per un istante ebbi l'impressione di scorgere lo spettro dell'ira sul suo viso. Quello dopo le sue mani corsero alla mia fune.

Ci volle parecchio, poiché l'acqua aveva stretto ancora di più il nodo che avevo fatto e i cavalloni ci percuotevano da ogni angolazione e la pioggia ci accecava.

Quando finalmente riuscì a scioglierla, l'uomo fece girare la corda intorno ai nostri addomi fino a farli combaciare, dunque legò l'avanzo alla propria fune.

Eravamo di nuovo tremendamente vicini. Arpionata ai pugnali, lo sovrastavo appena. I miei lunghissimi capelli mi ricadevano davanti al viso, creando come una specie di sipario che nascondeva i nostri volti alla tempesta che ci circondava.

Lui sollevò le braccia fuori dall'acqua e chiuse le mani grandi sulle mie, come a voler rinsaldare la mia morsa sulle else.

Il suo sguardo prese il mio.

E non lo lasciò più andare.

E non lo lasciò più andare

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