CAPITOLO 9

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Amlach aveva una fortuna sfacciata. Nei due giorni seguenti, piovve ancora. Non fummo travolti da altre tempeste, ma le precipitazioni furono sufficientemente copiose per racimolare un poco d'acqua nelle incavature che avevamo creato nel tronco.

Ci immergemmo per pescare ogni volta che avvistavo un banco di pesci edibili anche da crudi. L'umano era un discreto pescatore e, osservandomi, imparò in fretta a sfilettare un pesce. Tuttavia, quando mandava giù la polpa, la sua faccia si contraeva in smorfie nauseate che mi strapparono sogghigni impercettibili.

Il terzo giorno, sotto il sole cocente del mezzodì, Amlach smise di colpo di remare. La parte superiore del suo corpo oscillò appena e lui si chinò in avanti, puntellandosi con una mano sull'albero. Osservai con apprensione la sua schiena curva gonfiarsi e sgonfiarsi mentre boccheggiava.

Aveva bisogno d'acqua. Tanta acqua.

«Resisti», gli dissi, remando con più energia.

C'eravamo quasi. Riuscivo a fiutare il profumo di erba, fiori, piante e acqua dolce nella brezza ricca di salsedine.

Difatti, quasi un'ora dopo, i contorni dell'arcipelago si delinearono a circa trenta miglia di distanza.

«Vedo le isole», esclamai.

«Fantastico», replicò Amlach senza sentimento. Con un colpo di tosse e un lamento, fece per rimettere il remo in mare.

«Lascia», lo bloccai. «Mi rallenteresti soltanto».

«Sai una cosa, elfa?» Si stese all'indietro sul tronco, il ramo poggiato sull'addome. «Sei proprio una stronza».

Spiriti, quanto detestavo la sua volgarità. «Ti sto salvando la vita, idiota», mi ritrovai a ringhiare di getto.

Lui fece una risatina, vibrante e calda e sensuale, chiaramente soddisfatto di essere riuscito a farmi perdere le staffe.

Quando arrivammo all'arcipelago e i rami e le radici del nostro albero raschiarono il fondale sabbioso, saltammo giù e raggiungemmo la riva.

Non avevo mai visto una spiaggia, giacché il Regno degli Elfi era caratterizzato da sole coste rocciose con pareti a picco. Non come il Regno degli Uomini, che a nord aveva golfi di spiagge dorate. La sabbia era così chiara da risultare quasi bianca, e mi provocava una piacevole sensazione di solletico sotto i piedi.

Era bellissima.

Mi ci sarei voluta stendere, sfregare la guancia sui granelli, invece una presa concitata sul mio gomito mi fece tornare bruscamente alla realtà.

«Là», fece Amlach, indicandomi con un cenno del mento un flusso d'acqua dolce che sfociava sulla spiaggia.

Avanzai accanto a lui, caracollante, attenta a non tagliarmi con le conchiglie bianche disseminate qua e là.

L'acqua fuoriusciva con forza da una fessura bassa tra due alte rocce. Amlach cadde in ginocchio di fianco al flusso e vi immerse il viso, tentando di bere quanto più poteva. Mi inginocchiai dall'altra parte e mi dissetai dalle mani a coppa.

Il primo sorso fu tanto doloroso da farmi strizzare le palpebre. Provai a bere più piano, la gola riarsa che bramava sempre più acqua, le labbra screpolate che bruciavano. Quando non ebbi più l'impressione che ogni sorsata fosse come un sasso che mi scendeva lungo la trachea, mi sciacquai il viso con un sospiro.

Riaprii le palpebre appena in tempo per vedere Amlach fare lo stesso e reclinare il capo con un'espressione beata, gli occhi chiusi. Goccioline d'acqua gli scendevano sulle tempie, ai lati del naso con una leggera fossetta sulla punta, sulla barba, lungo il collo.

Scrutai quest'ultimo, come i tendini ai due lati fossero in rilievo sotto la pelle – non levigata come la mia – e convergessero nella fossa giugulare.

«Hai finito?»

Tentai di mascherare il mio sussulto, lo stomaco aggrovigliato al solo suono della sua voce cavernosa e a un tempo vellutata.

«Entriamo nella foresta per cercare un punto più profondo del fiume in cui lavarci», dissi in tono rigido, rizzandomi. «Poi ci occuperemo del cibo».

Lui si mise in piedi. «E se non troviamo niente?»

Mi volsi verso gli altri isolotti a forma di fungo. «Proverò sulle altre isole. O pescherò nella laguna, vicino alla barriera corallina».

«Pesce. Ancora...» borbottò Amlach dietro di me, mentre ci addentravamo tra gli alberi.

Mi lasciai scappare un sorriso, tanto lui non poteva vederlo. «Ma stavolta lo potrai cuocere».

«Resta sempre pesce, elfa», ribatté lui, beffardo.

Lo fulminai con un'occhiataccia da sopra la spalla, e lui mi fece l'occhiolino con un sorrisetto.

Procedemmo in silenzio su per la foresta, in parallelo con il fiumiciattolo, il nostro olezzo che attirava ogni specie di insetto volatile che voleva banchettare sulla nostra pelle.

Adoravo camminare a piedi nudi tra i faggi che circondavano Aegel, ma questo sottobosco era più viscoso e insidioso, tanto che diverse volte rischiai di ferirmi con dei massi seminascosti da folti tappeti di muschio.

A un certo punto, il rumore di uno scroscio sovrastò la musica degli uccelli che smuovevano le alte e fitte fronde. Poco dopo ci imbattemmo in una piccola cascata con una piscina d'acqua verdazzurra alla base.

Amlach si liberò del proprio pugnale e della fune e vi si buttò prima ancora che avessi il tempo di accertarmi che non fosse infestata da sanguisughe o altro. L'acqua gli arrivava soltanto ai fianchi mentre andava verso la cascata.

«Niente serpenti, elfa». Inclinò il capo verso di me con un sorrisino di sfida. «Puoi venire».

Ridussi le palpebre a due fessure ostili e, adagiando il fodero della mia arma a terra, lo seguii. Il fondo limaccioso del laghetto sembrava risucchiarmi i piedi fino alle caviglie, mentre raggiungevo la cascata. Ero già zuppa, ma appena il getto freddo mi investì, mi sfuggì un ansito; poi mi abbandonai a un gemito di puro apprezzamento.

Finalmente la patina di sale marino scivolò via dalle mie membra, dai miei vestiti, dai miei capelli. Mi passai le dita tra le lunghissime ciocche, sciogliendo le trecce e godendomi la sensazione dell'acqua che mi sbatteva sulle guance.

Quando feci mezzo passo indietro per riprendere fiato, scoprii che Amlach mi stava fissando con un'espressione omicida.

Come se avesse voluto afferrarmi la testa e sbatterla contro la parete rocciosa dietro la cascata.

Il mio corpo da combattente si tese, pronto allo scontro.

Ma poi il suo sguardo scese sulla mia figura e l'oscurità che lo pervadeva cambiò forma, divenendo più rovente, più intensa.

Più bramosa.

Fu allora che realizzai che l'impeto del getto d'acqua mi stava schiacciando la tunica addosso, al punto da trasformarla in una seconda pelle. Il tessuto era abbastanza spesso da non risultare trasparente, ma le sporgenze dei miei seni erano perfettamente delineate.

Era come se fossi nuda.

E ogni fibra del mio essere voleva che lui si avvicinasse. Voleva di nuovo il suo corpo contro il mio, come lo era stato per tutta la durata della tempesta. Voleva sentire ancora il suo respiro sulle mie labbra.

Ciononostante, nell'istante in cui Amlach fece per colmare la poca distanza tra di noi, tornai in me e mi tuffai nel laghetto. Ne uscii, restandomene grondante sulla sponda, rigida, il petto che si alzava e abbassava a un ritmo sostenuto.

Lo sguardo di Amlach era come una spirale di fuoco che mi si stringeva intorno, richiamandomi a sé.

Ma io non mi voltai.

Afferrai il mio pugnale e andai a caccia.


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