CAPITOLO 45

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Due mesi dopo


Ma quella notte non era mai avvenuta, poiché la Signora Yrrek lo aveva voluto ancora sotto le proprie coperte. E ancora, e ancora. Sette giorni dopo, io e Amlach avevamo sostenuto il nostro incontro nel secondo girone dei Giochi, e altri Signori avevano cominciato a richiedere la sua compagnia.

Allontanandoci inesorabilmente.

Ormai riuscivo a malapena a rispondergli, tanto era grande il magone che mi occludeva la gola quando lui trovava il coraggio di rivolgermi la parola. E le uniche volte in cui ero in grado di guardarlo erano mentre combattevamo nell'arena o ci allenavamo con le guardie di Roxior.

Ma oggi... oggi mi sentivo diversa.

Non provavo alcun dolore, mentre spalancavo le porte delle terme con tanta potenza da farle sbattere contro il muro e rovinare l'affresco.

Tutto ciò che percepivo era rabbia.

Implacabile e affamata e bollente e corrosiva e rossa come lo scroscio di sangue che mi si era riversato addosso quando Amlach aveva tagliato la gola del gladiatore che mi aveva atterrata e stava per finirmi.

Rabbia perché i nostri avversari erano ogni volta sempre più numerosi e grossi e meglio armati.

Rabbia perché continuavo ad essere obbligata a togliere vite per salvare la mia e quella di Amlach.

Rabbia perché mancavano ancora otto gironi al termine dei Giochi, e non ero per niente sicura che saremmo sopravvissuti fino alla finale.

Già priva del collare con la manetta, che Lotte ci aveva tolto non appena avevamo messo piede nella villa, mi avviai verso le docce mentre mi contorcevo per slacciarmi l'armatura da sola. Era impossibile, tuttavia, e più fallivo, più i miei grugniti di frustrazione diventavano più sonori.

Avvertii Amlach avvicinarsi alle mie spalle, e l'odore acre del suo sudore si unì a quello metallico del sangue che mi ricopriva.

«Lascia fare a me», si offrì, scansando le mie mani per raggiungere i lacci di cuoio.

«Non mi toccare», ringhiai, scrollandomelo di dosso.

Feci per mettere distanza tra di noi, piegando di nuovo le braccia dietro la schiena per arrivare a quei maledetti nodi, ma Amlach mi ghermì per la spessa treccia bionda con tanta brutalità da farmi prorompere in un grido.

«Lascia. Fare. A. Me», scandì in tono ferino, i denti che mi sfioravano l'orecchio in un sinistro avvertimento.

Serrai la mascella fino a farmi dolere i molari e, resistendo all'istinto di ruotare e sferrargli un calcio in mezzo alle gambe, lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi. Mi sembrò quasi di percepire il suo mezzo sorriso, mentre scioglieva i cordoncini lungo la mia spina dorsale con una mano sola.

La maestria delle sue dita non fece che accrescere la mia furia, perché significava che aveva slacciato talmente tanti corsetti, nella sua vita, da divenire un esperto.

Quando finì, mi lasciò andare i capelli e, tranquillo, disse: «Ora slega la mia».

Ero così indispettita che ci misi molto più di lui, il respiro tanto pesante che quasi sovrastava il rumore dell'acqua che precipitava nella vasca dalle statue con le ampolle. Giunta all'ultimo nodo, le mani mi tremavano tanto che mi arresi e, digrignando i denti come una belva, ruppi il laccio con uno strattone.

Mi allontanai in fretta da lui e mi tolsi l'armatura, i parabracci, i gambali e i sandali, lanciando ogni singola cosa contro il muro o la panca di marmo, dove erano già stati depositati i teli per asciugarci. Infine, mi sfilai la tunica sporca e, per nulla preoccupata dello sguardo di Amlach sul mio corpo nudo, mi ficcai sotto il rubinetto della doccia e girai la manopola. Accolsi il getto freddo sulla faccia incrostata di sangue e sabbia, poi mi sciolsi la treccia e buttai il nastro di cuoio da parte.

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