CAPITOLO 23

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La villa del Signore Roxior era situata a est del foro di Rubra, vicino all'arena in cui si tenevano i Giochi. Era composta da più edifici chiari, di varie misure, con spiccanti tetti in tegole di terracotta.

Oltrepassammo l'ingresso a doppio battente, con una cornice ad arco di pietre rossastre, e tagliammo in trasversale il portico, sorretto da colonne in mattoni e fiancheggiato da due torri quadrate.

La schiava più anziana ci ingiunse di attendere nell'atrio circolare, da cui si accedeva al peristilio che circondava il patio principale. Borbottò qualcosa all'altra donna, che si defilò da una soglia sulla sinistra.

Poco dopo, da quello stesso uscio sbucarono due servi, entrambi con il collare e il bracciale in rame. La giovane sorrise alla coppia con i bambini e fece cenno loro di seguirla. L'uomo invece fletté due dita a uncino verso i ragazzi.

Quando rimanemmo soli, la schiava dal volto di pietra restò a fissarci per secondi che mi parvero millenni. «Non mi aspettavo che il Signore avrebbe mai più comprato un gladiatore. Due, per giunta». Il suo labbro superiore si arricciò impercettibilmente per il disappunto. «Per cui la vostra stanza sarà pronta domani. Se il padrone vi vorrà lì», ci tenne a precisare.

«Grazie», replicai con un garbato cenno del capo, giacché avevo intuito che questa donna fosse una sorta di matriarca per la servitù di Roxior. «Sono certa che qualsiasi alloggio possiate darci andrà bene».

Lei rimase totalmente impassibile. «Venite, allora».

Fece dietrofront e sparì oltre la soglia da cui erano passati gli altri. Io e Amlach ci scambiammo una rapida occhiata titubante, quindi le andammo dietro.

Attraverso degli anditi minori, giungemmo in un vasto cortile esterno in pietrisco sabbioso, su cui affacciavano barchesse porticate che contenevano i dormitori delle guardie e degli schiavi, le cucine, i forni per il pane, le stalle con i fienili e i pollai, le dispense e le cantine, la lavanderia e i bagni.

C'era tanto fermento che per un attimo pensai di trovarmi di nuovo al mercato.

Alcune contadine si stavano occupando di un orticello con pomodori, insalata, patate e carote; altri uomini erano indaffarati con un melo solitario che svettava lì accanto. C'era chi mungeva le due vacche nel piccolo recinto collegato alle stalle, chi gettava da mangiare nelle mangiatoie dei maiali, chi tornava dal pollaio con un cestino colmo di uova. Soldati grondanti di sudore si allenavano sotto il sole mentre i maniscalchi controllavano i ferri dei cavalli legati alla staccionata sotto la tettoia.

La matriarca marciò spedita tra le persone che affollavano il cortile, incurante di tutti gli sguardi incuriositi che ci seguivano passo dopo passo e delle voci che si abbassavano man mano.

Notai che avevano tutti il collare e il bracciale in rame.

L'anziana ci condusse nelle stalle, e avvertii un immediato sollievo quando i miei piedi poggiarono sul terreno più fresco. L'aria viziata e pregna del sentore di sterco e urina, invece, mi occluse la gola.

Avanzammo verso il fondo dello stanzone infestato dalle mosche, dove si trovava una cella con delle balle di trucioli di legno, covoni di fieno e una rotoballa di paglia.

La serva aprì la porta a sbarre, estraendo la chiave dalla fessura. «Entrate», ordinò lapidaria.

Mi incupii minacciosamente. «Non ho avuto l'impressione che il vostro Signore ci considerasse ancora dei prigionieri, dopo averci salvati dai pirati».

Lei rimase stoica. «Finché il padrone non tornerà, per me sarete una minaccia per ogni abitante di questa casa».

«Una minaccia?», ripetei truce, facendo per invadere il suo spazio personale.

Amlach fu lesto a dare uno strattone alla catena per tirarmi indietro. «Comprendiamo perfettamente, e vi ringraziamo per questa temporanea sistemazione in attesa del Signore Roxior», disse con un sorriso affascinante mentre io lo pugnalavo con lo sguardo. «Ci permettete di usare la paglia per creare un giaciglio?»

I modi garbati e il tono persuasivo di Amlach sembrarono scalfire la rigidità della donna, che si rilassò appena. «Ma certo».

Amlach le rivolse una modesta riverenza e mi sospinse nella cella.

La schiava la chiuse all'istante e ruotò la chiave nella serratura, sostenendo l'occhiata ostile che le scoccai di traverso. «Vi saranno portati cibo e acqua nelle ore prestabilite. Quanto al resto...» Squadrò con un leggero disgusto la sporcizia che ci rivestiva come una seconda pelle. «...si vedrà in seguito alla decisione del padrone».

Amlach la ringraziò di nuovo, e dovetti resistere all'impulso di sferrargli un pugno sui denti.

La donna si defilò senza aggiungere altro, lasciando le stalle a piccoli passi svelti, la postura rigida.

Amlach mi scoccò un'occhiata divertita. «Qualsiasi alloggio, eh?»

«Taci», ringhiai con uno sguardo letale.

Lui emise quel risolino caldo e vibrante che mi faceva contrarre il bassoventre.

Non avendo una forca, usammo le mani per strappare pian piano la paglia dalla rotoballa e la distribuimmo a terra, nell'unico spazio disponibile tra i covoni e le balle di truciolo. Quando fummo soddisfatti del risultato, ci sedemmo spalla contro spalla, la schiena appoggiata al muro di mattoni.

Fissai le capre nel recinto vicino alla cella senza vederle davvero, maledicendomi per ogni mia singola scelta che mi aveva condotto qui.

Pregando che Araton mi percepisse invocarlo nei miei pensieri. E invocarlo, e invocarlo. Che venisse a prendermi.

«Saremmo dovuti rimanere sull'isola», mormorò Amlach, la voce cupa come il cielo prima della tempesta.

Rilasciai un mesto respiro dalle narici, ricadendo con la testa contro la parete. «Già».

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